Guglielmo Marchesella, co’ danari di Ancona ragunate genti e vettovaglie, arriva a Falcognara, quattro miglia distante dalla città assediata. Si ferma, e sopraggiunta la notte, ordina ai soldati sospendano uno o più lumi alle lance, e si fa oltre gridando; gli Anconitani rispondono: Cristiano atterrito fugge su le montagne picene, poi pel Ducato di Spoleti. I Veneziani a lor posta si ritirano. Ancona è liberata.
Federigo nell’ottobre del 1174, abbandonata Lamagna, per la parte del monte Cenisio raggiunge il suo Vicario Cristiano; in passando arde Susa, occupa Asti, e viene ad assediare Alessandria. La difesa di questa città meriterebbe descrizione ben lunga: e’ fu un fatto di arme da celebrarsi quanto qualunque altro antico, o moderno; perchè, a dire vero, sebbene gl’Italiani di que’ tempi apparissero scellerati, pure era loro più facile mostrarsi magnanimi, che a quei di oggi mostrarsi non vili. Alessandria, difesa da un argine di terra male assodata, ributtando l’Imperatore, chiarì nuovamente che il petto di cittadini disposti a morire sia il miglior baluardo per la tutela di un popolo. Federigo ricorse al tradimento, ma non ne ricavò altro che infamia. Sempre ributtato, scioglie dopo quattro mesi l’assedio, e si ritira a Pavia. Nel nuovo anno 1176 Wiemanno Arcivescovo di Maddeburgo, Filippo Arcivescovo di Colonia, e molti altri prelati vengono con numerosissimi eserciti pei Grigioni e per Chiavenna in soccorso dell’Imperatore. Nel 29 maggio si combatte la battaglia di Legnano. Questa terra, posta tra l’Olona e il Ticino, lungo la via che mena al Lago Maggiore, occuparono i Milanesi, come quella che offre ottime situazioni per la difesa, e per offendere ha non lontane vastissime pianure dove si possono spiegare numerose milizie. Federigo si attendò a Cariate, piccolo borgo, lontano circa mezzo miglio da Fagnano, nel quale sorgeva un antico monastero, fabbricato dalla Regina Teodolinda di santa memoria. Combattevano co’ Milanesi. Bresciani, Piacentini, Novaresi, Lodigiani e Vercellesi: coi Tedeschi i Comaschi, i Pavesi e il Marchese di Monferrato. Sul far del giorno settecento cavalieri lombardi mossero contro Federigo: questi manda a incontrarli cinquecento dei suoi; si comincia la battaglia: combattevasi francamente per ambedue le parti, chè i Tedeschi erano in quel tempo i migliori cavalieri del mondo, e gl’Italiani pieni di ardire per la causa difesa. Nondimeno i Tedeschi, per nuovi rinforzi, sempre crescenti, rompono gl’Italiani, e gli mettono in fuga. Ora i vittoriosi, invece di starsi rannodati ad aspettare le rimanenti forze nemiche, si danno ad inseguire i vinti, ed incontrate per via alcune schiere bresciane, quelle parimente percuotono e disperdono. L’Imperatore sebbene biasimasse cotesto intempestivo inseguire, volendosi nondimeno prevalere dello sgomento che le prime mosse avevano gettato nelle file lombarde, carica col grosso dei fanti la compagnia del Carroccio; questa al primo impeto scompigliata si piega, quasi fuggendo; Federigo incalza, e già sta presso ad impadronirsi del gonfalone. Allora la compagnia della Morte, composta di novecento giovani e nobili cavalieri, tutti legati col giuramento di vincere o morire, che formava la schiera di riscossa, visto quell’estremo caso, si getta da cavallo, si prostra, invoca il nome di Dio, dei Santi Pietro ed Ambrogio, ripete ad alta voce il giuramento, e si precipita nella zuffa. Federigo, respinto da quella dura carica, torna all’assalto; nuovamente ributtato, si volge ai suoi per inanimirli: ma questi scorati, esitano, e si perdono; la furia dei rovinanti nemici gli sfonda; Federigo stesso rovesciato da cavallo viene con pericolo di vita travolto nella fuga. La battaglia è convertita in miserabile strage di gente sbandata. Molti furono i morti sul campo, moltissimi i sommersi nel Ticino. Ai Comaschi, siccome traditori, non si dettero i quartieri, e mala pena ai Tedeschi. Venne in potere dei Lombardi il tesoro imperiale, lo scudo, il vessillo, la croce e la lancia di Federigo medesimo; per più giorni non si ebbe nuova di lui. La Imperatrice rimasta a Como lo pianse per morto, e si vestì a lutto.
Federigo non pertanto viveva: fatto prigioniero dai Bresciani, si traveste da mendico, e ricompare a Pavia con l’onta di una disfatta sul volto. Fremeva il superbo nel doversi dir vinto: ma i casi più potenti di lui lo costringevano a mandare a Roma ambasciatori per la pace, tanto adesso da lui lealmente domandata, quanto poc’anzi perfidamente conclusa con Ezzelino padre del feroce Ezzelino da Romano, ed Anselmo padre di Buoso da Doara, a nome della Lega Lombarda. Convennero di un Congresso in Bologna; poi mutarono in Venezia, a patto che non c’intervenisse lo Imperatore se non a pace fermata. I Ministri non si accordavano; invece di pace proponevano tregua di quindici anni pel Papa e pel Re di Sicilia, di sei per la Lega Lombarda. Federigo domanda avvicinarsi al luogo del Congresso, e al punto stesso, senza nessuna risposta aspettare, lasciata Pomposa, villa nel contado di Ravenna, giunge a Chiozza. Parte dei Veneziani tumultuando chiede che sia ammesso in città; il Papa, e i Legati Siciliani sostengono doversi stare ai patti: accetti la tregua, e la ratifichi, altrimenti si allontani; se ai cittadini piacesse riceverlo, lo ricevessero, ma essi partirebbero nel punto stesso, protestando contro la manifesta infrazione del diritto delle genti. Alla fine Federigo per mezzo del Conte Enrico Dessau accetta la tregua il 6 luglio 1177. Allora mandato a prendere a Chiozza dal Senato veneziano, fu dal Doge Sebastiano Ziani condotto a grande onoranza sopra la piazza di San Marco, dove incontrato il Pontefice, secondo quello che narrano gli antichi cronisti, toltasi la porpora imperiale dalle spalle la stese per terra, e quindi prostratosi si curvò in atto di baciare il piede al Papa Alessandro, che ponendoglielo in vece sul collo esclamò: Super aspidem et basiliscum ambulavi etc. Alle quali parole Federigo rispose: Non tibi, sed Petro: – e il Papa di nuovo: Ego sum vicarius Petri. Questa istoria, comunque si veda tuttora con bellissime pitture effigiata su le pareti della Sala grande del Consiglio di Venezia, reputasi dai moderni storiografi una favola, senza però che ne abbiano esposto le cagioni, almeno per quanto mi riuscisse di poter ricercare. Passarono gli anni della tregua senza che accadesse azione degna di memoria; e già si avvicinava il tempo di riassumere le offese, allorchè Federigo, ormai disperato di fare buon frutto in Italia, e indotto dalle istanze del figlio Enrico VII a convertire la tregua in pace durevole, mandò al Congresso di Piacenza Guglielmo Vescovo di Asti, Enrico, Teodorico e Rodolfo, per trattare l’accordo. Questi convennero dei preliminari, e invitarono i deputati delle Repubbliche lombarde alla Dieta di Gostanza. Conservasi il libro della Pace di Gostanza su la fine del Codice dell’Imperatore Giustiniano, come monumento importantissimo, non pure per avere lungo tempo regolato i diritti delle genti in Italia, quanto per dimostrare la indole del Barbarossa. Costretto a cedere, vuol far sembianza di donare; e con orgoglio, che disdirebbe alla vittoria, concede cose, che appena si ricercano dai vinti. La prudenza dei Lombardi chiaramente si manifesta in questa occasione, imperciocchè, poco curando la petulanza dello stile ampolloso, guardarono ai loro interessi, e lasciarono ch’ei si sfogasse. Il proemio della Pace di Gostanza litteralmente volgarizzato dice: «La benigna ed infinita serenità della imperiale clemenza ebbe sempre in costume di reggere i popoli con larghezza di favore e di grazia, per modo, che sebbene debba, e possa con rigida severità punire i delitti, pure ama piuttosto governare l’Impero Romano con la propizia tranquillità della pace, e con pietosi affetti di misericordia chiamare la insolenza dei ribelli alla dovuta fede, ed all’ossequio di debita lealtà ec.» Dopo tanto pomposo cominciamento l’Imperatore cede tutte le Regalie, i contadi, i diritti acquistati per prescrizione, quelli di levare eserciti, afforzare le mura, rendere giustizia; annulla le confische dei beni, e le Infeudazioni in danno delle città; approva che sollevandosi qualche disputa tra lui e un popolo, il Vescovo decida; promette non dimorare tanto lungamente in una città da farle guasto. I Lombardi convengono di ricorrere ad un suo Vicario, o Podestà, per l’appello delle cause maggiori di venticinque lire; si obbligano a corrispondere del Fodero, del Mansionatico, e della Parata; patteggiano rinnuovare ogni dieci anni il giuramento di fedeltà.
Così, dopo il sagrifizio di oltre un milione di uomini in sette diverse imprese, finivano i disegni ambiziosi di Federigo in Italia. Ma quel suo spirito non poteva durare in riposo: nulla curando gli anni, ormai divenuti molti, nulla i disagi e i pericoli, appena giunse novella in Occidente che Saladino aveva preso Gerusalemme, tolta la croce, con novantamila