Giunto innanzi Roma si attendò fuori delle mura: dipoi, per consiglio del Pontefice, mandati innanzi mille cavalieri ad occupare la città leonina, e il ponte sotto il castello di Sant’Angiolo, andò a San Pietro, dove dalle mani del Papa ricevè scettro, spada, e corona, applaudente lo esercito. Compiuta la cerimonia, tornava al campo. I Romani ragunatisi al Campidoglio risolvono non soffrire tanto manifesto disprezzo; assaltano la città leonina, e quanti Tedeschi vi trovano uccidono. S’ingaggia una molto terribile battaglia davanti Sant’Angiolo. I Romani combattono francamente fino a notte; allora con la perdita di mille duecento uomini sono respinti. I Tedeschi però, non estimandosi sicuri, si ritirano a Tivoli, dove Alessandro assolve i soldati, dichiarando: non essere delitto versare il sangue dei popoli per mantenere i Principi, ma vendetta dei diritti dell’Impero. E sempre così! Federigo lascia il Pontefice a Tivoli, e volte le armi contro Spoleti, divenutagli nemica per la prigionia di Guido Guerra, e pel rifiuto di certo Fodero, la vince, la saccheggia, e la incendia. Ormai in questa impresa le cose gli andavano a seconda, e di certo gli sarebbe venuto fatto di conquistare il Regno di Napoli. dove i suoi Baroni, obbligati a seguitarlo per due soli anni, volendo tornarsene a casa, non lo avessero costretto a congedarli in Ancona. Egli poi traversata Romagna con modesta compagnia, alquanto tempo dopo teneva lor dietro. Giunto a Verona, poichè questa città godeva il privilegio di non dare il passo alle milizie imperiali, gli apprestavano un ponte su l’Adige. Il ponte fu dai Veronesi costruito con questo intendimento, che quando gli Imperiali fossero in parte passati, col gettare zattere cariche di terra nella corrente superiore del fiume, si rompesse, e così divisi, potessero agevolmente trucidarli. Ma l’inganno tornò in capo agli ingannatori; perchè i Tedeschi, duramente incalzati dalla gente del contado, passando a precipizio scamparono; gl’inseguenti rimasero rotti, ed una parte di questi, senza poterli soccorrere. stette sopra una riva, dolente spettatrice dello scempio che si faceva su l’altra dei suoi infelici compagni.
Questa è la prima spedizione di Federigo in Italia. narrata diligentemente da Ottone Frisingen, figlio di Leopoldo di Austria. Ben altre sei, sebbene con maggiore brevità, ne verremo esponendo, tutte piene di casi scellerati. Ora l’ordine della narrazione ci porta a contare le vicende del Reame di Napoli.
I Normanni, divenuti cristiani, dopo il conquisto della Neustria grandemente si dilettarono di sante pellegrinazioni; e visitata da prima Gerusalemme, passavano in Puglia, dove adorati i santuarii del monte Gargano e del monte Cassino, se ne tornavano in patria. Nel 1016 cento di questi Normanni trapassando per Salerno, allora governato dal Duca Guaimaro III, videro con maraviglia una masnada di Saracini sbarcare di nave, mettere a contribuzione la città, e aspettando il tributo darsi a banchettare trascuratamente sul lido: molto e più stupirono poi, allorchè i Salernitani, invece di apparecchiarsi a combattere, prepararono le cose richieste: onde sentendosi punti di vergogna per loro, sortirono dalla città, si gittarono addosso ai Saracini, e, molti uccidendone, costrinsero i rimanenti alla fuga. Pensisi quali accoglienze facesse loro Guaimaro. Voleva ad ogni costo ritenerli, ma rifiutarono; promettevano che gli avrebbero mandato alcuni compagni, e riccamente regalati si congedavano. Giunti in patria, la bellezza di questo nostro suolo esaltando, gli ori e le sete ricevute in dono mostrando, e sopra ogni altra cosa facendo gustare le frutta, che seco avevano recato, invogliarono gran parte dei concittadini loro a passare in Puglia. Di qui la conquista normanna del Regno di Napoli: vennevi primo Drengotto con poca fortuna: vennevi con migliore nel 1035 Tancredi di Altavilla coi suoi dodici figliuoli. Ponendosi ora sotto il comando di un Duca, ora sotto quello di un altro, vendendo il proprio braccio, per lo indebolimento di tutti giunsero a tale grado di potenza, che Papa Lione IX, timoroso pei suoi Stati Romani, predicò la Crociata contro di loro. Il Pontefice, quantunque sovvenuto da Tedeschi, Greci, Campani e Pugliesi, disfatto alla battaglia di Civitella, combattuta il 18 giugno 1053, cadde nelle mani di Unfrido braccio di ferro, Conte di Puglia, primogenito di Tancredi di Altavilla. Le molte cortesie adoperate dal Conte Unfrido al Pontefice, di nemico ch’egli era, glielo resero tanto benevolo e amico, che potè indurlo a investirlo, a nome di San Pietro, delle presenti e delle future conquiste, promettendogli in cambio un censo annuale di ottomila once d’oro. Morto Unfrido, succedeva Roberto il Guiscardo. Le conquiste di questo eroe furono tante, e tanto maravigliose, che gli antichi cronisti vollero, piuttosto che al suo valore, attribuirle a miracolo. La morte lo colse a Cefalonia nel luglio del 1085, allorchè si apprestava ad occupare la Grecia. Lasciò due figli, Rogiero Gran Conte di Puglia, o Boemondo: questi contesero del Principato, finchè la guerra delle Crociate aprendo vastissimo campo all’ambizione di Boemondo, passò in Soria, dove sottomise e tenne Antiochia. Rogiero, rimasto tranquillo possessore del retaggio paterno, muore a Melito nel luglio del 1101: gli succede Guglielmo, che, defunto anch’egli a Salerno nel 1127 senza prole, lascia tutti i suoi Stati a Rogiero II, suo cugino, figlio di Rogiero I, il quale, vivendo il Guiscardo, aveva conquistato Sicilia. Questo Rogiero II fu di mano, e più di consiglio, valoroso; per concessione dell’antipapa Anacleto II assunse corona reale; perdè, e ricuperò il Regno di qua dal Faro sotto Lotario II; fece prigioniero Papa Innocenzio II, e lo costrinse a confermargli la investitura del Regno di Sicilia; finalmente, dopo lunga e gloriosa vita, morì a Palermo nel febbraio del 1153. lasciando Guglielmo I detto il Malvagio regnante ai tempi del Barbarossa.
Fu il Regno di Guglielmo, non tanto per le forze degli esterni nemici, quanto por le interne rivoluzioni, tutto sconvolto. Maione, uomo oscuro di Bari, salì a tanta altezza di potere su l’animo del Re, che nessuna cosa, per quanto grande ella fosse, da altri fuorchè da lui si amministrava. La petulanza di questo Ministro si manifesta dalla domanda ch’ei fece ai Frati di Monte Cassino, affinchè registrassero sopra il loro libro dei Defunti (dove solamente si segnavano Papi, Imperatori, Re ec.) la morte dei suoi genitori: e i Monaci, però che l’adulazione sia stato male di tutti i tempi e di tutti, scrivevano sul libro: – Curazza mater Madii Magni Admirati Admiratorum obiit VII. K. Augus. Et Leo pater Admirati Admiratorum obiit VI. I. Sept. – Ora non rimanendogli più nulla da desiderare, come Ministro, e Grande Ammiraglio degli Ammiragli, sollevò la mente a più alti disegni. Tentò e vinse l’onestà della Regina. I primi gradi della milizia al suo fratello, e al suo figlio, concesse. Simone suo nepote creò Gran Siniscalco; mediante il matrimonio di sua figlia sperò farsi partigiano Mario Bonello cavaliere di moltissimo seguito nel Regno. Istruì eziandio pratiche con Alessandro, perchè ad esempio di Papa Zaccheria, che rimosse Childerico dal trono di Francia, deponesse Guglielmo, e lui in sua vece costituisse. Alessandro, conoscendo la malvagità di Maione, ributtò il trattato. Non per questo si rimase l’Ammiraglio, che anzi, considerando come fossero di grave impedimento ai suoi disegni Roberto Conte di Loritello, Simone Conte di Policastro, e Roberto Principe di Capua, signori riputatissimi, e parenti del Re, si accostò ad Ugone Arcivescovo di Palermo, uomo anche egli avido di dominio, e abbindolatolo con infinite promesse, gli scoperse i suoi segreti pensieri, e lo indusse a giurare, che in ogni fortuna, per quanto fosse stato in lui, lo avrebbe sostenuto. Intanto il Re Guglielmo stavasi chiuso nel suo palazzo di Palermo, sospettoso della lega che correva voce avessero stretto a suo danno gl’Imperatori Federigo Barbarossa, ed Emanuelle Comneno: dubitava della fede dei suoi Baroni; dubitava dei parenti, di sè medesimo dubitava. Maione conobbe essere giunto il tempo di rovinare gli odiati nemici, che con altrettanto odio lo ricambiavano. Cominciò da Roberto di Capila, che in quel torno dimorava a Sorrento; da prima lo mostra quale uomo pericoloso alla pace del Regno; vedendo che le parole trovavano tenero nell’animo di Guglielmo, lo accusa di ambiziose macchinazioni, finalmente di segrete intelligenze col nemico. Si spediscono genti ad arrestarlo. Roberto, avvertito in buon punto, si parte di Puglia, e con molti seguaci ripara negli Abruzzi. Rimanevano i Conti Simone e Roberto. Maione fece insorgere una rissa tra le milizie comandate dal Cancelliere Asclettino, e quelle del Conte Simone; descrisse quel tumulto come gli parve; aggiunse essere il Conte cagione di cotesti disturbi, congiurare insieme col Conte Roberto in pro del Principe di Capua; suppose lettere e messi, per modo che il Re, fatto arrestare Simone, senza pure ascoltarlo, lo condannava a perpetua prigionia.
Gravissima fu la indignazione dei popoli per così grave attentato; oggimai non potendo più sopportare la tirannide di Maione e di Guglielmo, proruppero in manifesta rivolta. Si videro a un punto la Calabria, la Puglia e la Terra di Lavoro,