«Eccellenza!…» protestò il nipote, scandalizzato.
Don Blasco lo guardò nel bianco degli occhi, quasi volesse mangiarselo. Ma, come passava in fretta e in furia Baldassarre, girò sui tacchi, tonando:
«Ah, no? E andate un poco a farvi friggere, tutti quanti!…»
Finito di dar ordini alla servitù, Baldassarre aveva adesso un altro gran da fare, poiché cominciavano a venire ambasciate dei parenti più lontani, degli amici, dei conoscenti che mandavano ad esprimere le loro condoglianze e a prender notizie dei superstiti. Il maestro di casa riceveva nell’anticamera dell’amministrazione le persone di riguardo, lasciando al portinaio i servitori; ma parecchi fra questi portavano i regali funebri: vassoi pieni di dolci, di forme di marmellata o di cioccolata, di frutta candite, di pan di Spagna, di bottiglie di moscato o di rosolio, e allora Baldassarre si faceva in quattro per riporre quella roba, e annunziare i doni ai padroni, e ringraziare i donatori, e dare udienza ai sopravvenienti. La cugina Graziella, con le chiavi delle credenze alla cintola, faceva da padrona di casa, per risparmiare la principessa; il cavaliere don Eugenio dava anch’egli una mano, e quantunque i lavapiatti che lavoravano come domestici protestassero: «Lasciate fare a noi», egli vuotava i vassoi da restituire, trasportava la roba nella sala da pranzo e tratto tratto si ficcava in tasca una manata di dolci.
Per la duchessa Radalì che era andata via, non potendo lasciare a lungo il marito solo, dieci altre visite erano sopravvenute: il barone Vita, il principe di Roccasciano, i Giliforte, i Grazzeri, don Carlo Carvano, marito della cugina. Secondo che la giornata s’inoltrava, lettere e biglietti di condoglianza piovevano da tutte le parti: l’Intendente mandava a esprimere il suo dolore per il lutto d’una famiglia devota al Re ed alla buona causa; Monsignor Vescovo associavasi al dolore dei suoi cari figli; dall’Orfanotrofio Uzeda, dall’Ospizio dei Vecchi, dagli altri istituti di beneficenza che i Francalanza avevano fondato o sussidiato, venivano i rettori, i cappellani, una quantità di tonache nere, oppure i poveri ospitati; ma questi non eran lasciati salire ed esprimevano il loro rammarico al portinaio o al sotto-cocchiere. Il comandante della guarnigione, il presidente della Gran Corte, tutte le autorità, tutta la città si condoleva con la famiglia. Gruppi di mendicanti aspettavano, con la speranza che avrebbero distribuito elemosine; molte persone domandavano con insistenza del signor Marco: udendo che ancora non era sceso dal Belvedere, alcuni andavano via per tornare più tardi; altri si mettevano a passeggiare su e giù dinanzi alla casa, aspettando d’acchiapparlo al varco, pazientemente.
I due cortili parevano una fiera, dalle tante carrozze allineate all’ombra: i cavalli, con le teste dentro le coffe, ruminavano raspando tratto tratto il selciato con l’unghia. Ad uno ad uno, poiché imbruniva, arrivavano i servitori dei parenti, aspettando i padroni; e la conversazione della servitù, animatissima, aggiravasi intorno all’avvenimento ed alle sue conseguenze. Le donne, vedendo quella gran confusione, quell’andirivieni di gente, quel succedersi d’ambasciate e di lettere, compiangevano vivamente la principessa nuora: «Povera signora! A quest’ora dev’essere sulle spine!…» Infatti, ella soffriva d’una specie di malattia nervosa per la quale non tollerava di star pigiata tra la gente, di toccar cose maneggiate da altri: fortunatamente la cugina era lì ad aiutarla. E alcuni facevano riflessioni filosofiche: «Se invece d’oggi la madre del principe fosse morta sei anni addietro, la cugina, adesso, invece di aiutar la padrona, sarebbe lei la padrona qui dentro.» Non era stato permesso dalla principessa vecchia, quel matrimonio, e il padrone aveva obbedito alla madre, sposando donna Margherita Grazzeri; però, bisognava dire la verità, la cugina s’era diportata benissimo: maritata col cavaliere Carvano, era rimasta affezionatissima alla zia che non l’aveva voluta per nuora, e aveva trattato come una vera sorella la moglie dell’antico suo innamorato. «E il principe? Forse che pare si rammenti d’averle voluto bene in un certo modo?…» Per tanto, molti lodavano l’opera della morta: ella aveva ben fatto ad opporsi a quel matrimonio, poiché i due antichi innamorati s’eran messo il cuore in pace. «Gran donna, la principessa! Basti dire che rifece la casa già fallita!» E tutti domandavano: «A chi lascerà?…» Ma come saperne nulla se non si era confidata mai con nessuno, neppure coi figli?… «Se ci fosse stato il contino Raimondo, però!…»
Allora i partigiani del principe, senza tanti riguardi: «La roba dovrebbe andare al padrone, se quella pazza non ne avrà fatta un’altra delle sue!…» Infatti non aveva potuto soffrire il primogenito, prediligendo il contino Raimondo; e il contino, quantunque chiamato e richiamato dalla madre che sentiva vicina la propria fine, non s’era mosso da Firenze!…
All’arrivo di fra’ Carmelo, spedito dall’Abate di San Nicola per aver notizie di don Lodovico e di don Blasco, il discorso prese un’altra piega. Fra’ Carmelo sapeva la via del palazzo dalle tante volte che ci aveva accompagnato don Lodovico novizio; e tutta la servitù lo conosceva e gli voleva bene, tant’era buono, con quel suo faccione che pareva scoppiare, grasso fin sulla nuca.
«Povera principessa!… Che gran disgrazia!»
Egli lodava la morta e rammentava i tempi del noviziato di Padre Lodovico, quando, conducendo a casa il ragazzo in permesso, le portava regalucci di frutta che la buona signora degnavasi di accettare.
«Alla mano con tutti!… Affezionata con tutti!… Povero Padre Lodovico! Deve aver pianto!»
Le donne esclamarono:
«Figuriamoci! Un santo come lui!…»
E fra’ Carmelo:
«Un vero santo! Non c’è monaci che gli possano stare a paragone. Non per nulla l’han fatto Priore a trent’anni!»
«Suo zio don Blasco non gli somiglia?…» disse improvvisamente il cocchiere maggiore, con una strizzatina d’occhi.
«È un’altra cosa. Tutti gli uomini possono esser formati a un modo?… Ma bravo anche lui!… Signore anche lui!…»
E giusto il discorso era a quel punto, quando un lontano rumore di carrozza con le sonagliere fece tacer tutti. Giuseppe, guardando dallo sportello, spalancò il portone: il carrozzino della mattina entrò a rotta di collo e ne scesero il principe e il signor Marco che teneva una valigia in mano, mentre tutti si scoprivano e dalla loggia del piano nobile affacciavasi don Blasco.
Il ritorno del capo della famiglia, nella Sala Gialla, produsse una nuova commozione: sospiri, singhiozzi, mute strette di mano. Il principe era sempre pallido e parlava a stento, con gesti larghi di sconforto:
«Troppo tardi!… Più nulla da fare!… Fino a iersera stava benissimo, mangiò anzi con appetito due uova e bevve una tazza di latte… All’alba di stamani, improvvisamente, chiamò e…» e tacque, quasi non potendo proseguire.
Il signor Marco, deposta la valigia, confermava:
«Impossibile prevedere questa catastrofe… Nel primo momento, speravo fosse soltanto una sincope… ma purtroppo la triste verità…» Chiara e la cugina piangevano; il Priore deplorava specialmente che nessun sacerdote l’avesse assistita negli ultimi istanti; ma il signor Marco assicurò che ella erasi confessata due giorni innanzi, che il Vicario Ragusa era arrivato in tempo a darle l’assoluzione; mentre il principe da canto suo riferiva:
«Abbiamo improvvisato una cappella ardente… tutti i fiori della villa… ne hanno mandati da ogni parte…»
«E Ferdinando?» domandò Chiara
«Non è venuto?… Ah!» Egli si battè a un tratto la fronte. «Dovevo passar io ad avvertirlo!… Me ne sono scordato!… Baldassarre!… Baldassarre!…»
Ma, sul più bello, don Blasco, il quale aveva tenuto d’occhio la valigia quasi ci fosse dentro roba di contrabbando, lo tirò per la manica, domandando: «E il testamento?»
Il principe, con un altro tono di voce, non più dolente, ma premuroso, pieno di scrupoli:
«Il signor Marco qui presente» rispose, «m’ha comunicato che le ultime volontà di nostra madre sono depositate presso il notaio Rubino. Noi aspetteremo, se credete, l’arrivo di Raimondo e dello zio duca… Frattanto, abbiamo suggellato tutto quel che s’è trovato,