L’agonia di Famagosta era cominciata, preludio di strazi orrendi, che dovevano sollevare un grido immenso d’indignazione fra le nazioni cristiane della vecchia Europa.
L’Oriente uccideva l’Occidente; l’Asia sfidava la cristianità, facendo sventolare orgogliosamente, dinanzi ad essa, la verde bandiera del Profeta.
Dappertutto gli infedeli vincevano ormai. Le torri una ad una cadevano nelle mani dei barbari dell’Arabia e delle steppe asiatiche ed i vinti, morti o moribondi, venivano precipitati nei fossati ed i bastioni, ormai diroccati, venivano presi d’assalto.
Anche quello di San Marco non opponeva più che una debole resistenza. Gli schiavoni ed i veneti, ormai disorganizzati dalle furibonde cariche dei giannizzeri, cominciavano a sbandarsi. Più nessuno obbediva alla voce del governatore, nè a quella dei capitani.
I morti si accumulavano senza tregua. Al bastione di terra ormai demolito, era succeduto un bastione di carne umana e di ferraglie.
Una nube immensa, prodotta dal fumo delle artiglierie nemiche, s’abbatteva, come un velo funebre, su Famagosta, avvolgendola tutta.
Le campane non squillavano più e le preghiere delle donne, raccolte nelle chiese, si perdevano fra il vociare formidabile degli infedeli.
La marea montava, montava, marea umana ben più terribile di quella dell’oceano e pareva che avesse perfino il suo muggito sinistro.
I guerrieri asiatici avevano ormai scalate le mura e calavano, come corvi affamati, o meglio come avvoltoi, sopra la città.
I veneti, gli schiavoni, gli abitanti, che avevano partecipato alla difesa, fuggivano a corsa disperata attraverso le strette vie di Famagosta, cercando di nascondersi fra le macerie delle case, entro le cantine, nelle casematte, nelle chiese, spargendo il terrore colle loro grida di:
– Si salvi chi può! I turchi! I turchi!
I soldati che difendevano ancora le cinte e le torri, udendo quelle urla che annunciavano ormai la caduta della salda fortezza, temendo di venire presi alle spalle, a loro volta abbandonavano ogni difesa, rovesciandosi all’impazzata dietro le cinte.
Nondimeno qua e là, sulle piazze, dietro le case in rovina, sugli angoli delle viuzze, i veneti cercavano di opporre ancora qualche resistenza, per impedire ai turchi di giungere dinanzi alla vecchia chiesa, dedicata al protettore della Repubblica e ritardare la strage delle donne e dei fanciulli, che si erano rifugiati sotto le immense navate, aspettando rassegnati che le scimitarre degli infedeli compissero l’orrendo eccidio.
Quantunque sfiniti e per la maggior parte feriti, i valorosi figli della Regina dell’Adriatico facevano pagare ancora cara la vittoria al formidabile nemico.
Sapendosi ormai condannati alla strage, lottavano col furore che infonde la disperazione, assalendo con animo deciso le teste delle colonne e facendo strage di giannizzeri, d’albanesi, di irregolari e di arabi.
Sfortunatamente per loro la cavalleria era pure entrata in Famagosta, passando attraverso le brecce del bastione di San Marco ed irrompeva a galoppo sfrenato attraverso le strade, con clamori assordanti, spazzando dinanzi a loro quanti cercavano di opporsi.
Erano dodici reggimenti, montati da cavalieri arabi, che caricavano all’impazzata, sciabolando senza misericordia. Nessun corpo scelto, nè agguerrito avrebbe potuto far fronte a quei figli del deserto.
Alle quattro del mattino, quando le tenebre cominciavano a dileguarsi e la fitta nuvola di fumo a diradarsi, i giannizzeri che coll’aiuto della cavalleria avevano sgominate completamente tutte le difese, espugnando una ad una le poche case che ancora rimanevano in piedi, decapitando ferocemente quanti vi avevano trovati dentro, giungevano dinanzi alla vecchia chiesa di San Marco.
Il governatore di Famagosta, l’eroico Baglione, stava ritto sull’ultimo gradino, appoggiato fieramente alla spada gocciolante di sangue turco, circondato da un pugno di guerrieri, gli ultimi sfuggiti alla strage.
Era ancora senza cimiero e la sua maglia d’acciaio, lorda di sangue, cadeva a brandelli, ma nessuna ruga solcava la fronte ampia del condottiero veneto ed il suo sguardo appariva sereno.
I giannizzeri, che già lo avevano subito riconosciuto, si erano fermati e le loro grida selvagge si erano subito spente.
La calma straordinaria di quell’eroe, che per più mesi aveva tenuto in iscacco il più formidabile esercito che fino allora avessero radunato i sultani di Bisanzio e che col valore della sua spada aveva mandato nel paradiso del Profeta più di ventimila guerrieri della Mezzaluna, pareva che avesse calmato di colpo quelle furie assetate di sangue cristiano.
Un pascià, che portava sul suo cimiero scintillante tre penne verdi e che impugnava una larga scimitarra, impaziente di finirla con quel gruppo di giaurri, si era aperto il passo fra i giannizzeri, facendo caracollare insolentemente il suo cavallo.
– Offrite le vostre teste alle scimitarre dei miei uomini – gridò. – Voi siete vinti!
Un sorriso sdegnoso comparve sulle labbra del condottiero veneto, mentre un lampo terribile balenava nei suoi occhi.
– Uccidi dunque, giacchè hai fretta, – gli rispose, gettando la spada – ma bada che il Leone di San Marco non muore in Famagosta, e che un giorno il suo ruggito si farà udire entro le mura della vecchia Bisanzio.
Poi, tendendo la destra verso le porte della chiesa che erano tutte aperte, riprese:
– Là vi sono delle donne e dei fanciulli da massacrare. Non opporranno resistenza: disonorate, se volete, la fama dei guerrieri dell’Oriente. La storia vi giudicherà.
Il pascià era rimasto muto: le fiere parole del capitano dei veneti lo avevano colpito diritto al cuore e non trovava risposta da dare.
In quell’istante si udirono a squillare le trombe e rullar i timballi, e le file dei giannizzeri si aprirono precipitosamente addossandosi contro i muri delle case.
Era il Gran vizir che si avanzava coi suoi capitani e la guardia albanese.
Entrò nella piazza colla scimitarra snudata, ritto fieramente sul suo bellissimo cavallo infioccato, colla visiera alzata. Aveva la fronte aggrottata e un lampo crudele negli occhi neri e vividi. Attraversò le file dei giannizzeri, senza nemmeno degnare d’uno sguardo quei prodi che, sacrificandosi a migliaia e migliaia, gli avevano dato in mano Famagosta, poi accennando colla scimitarra il gruppo formato dai guerrieri veneti, disse alla sua guardia:
– Impadronitevi dei vinti.
Quindi, mentre il suo ordine veniva immediatamente eseguito, senza che gli ultimi superstiti delle compagnie venete opponessero resistenza, fece salire al suo cavallo i tre gradini ed entrò nella chiesa che scintillava di lumi, fermandosi in mezzo alla navata centrale colla sinistra posata fieramente sull’anca.
Le donne che si erano pigiate contro l’altare maggiore, tutte in ginocchio, stringendosi al petto i loro fanciulli, avevano mandato un immenso urlo di terrore, mentre un vecchio prete, forse l’unico sfuggito alla strage, alzava una croce come se con quella avesse voluto impressionare il crudele rappresentante del Gran Sultano di Bisanzio. Il momento era solenne, terribile. Bastava un segno perchè i giannizzeri che si erano già rovesciati attraverso le porte spalancate, si scagliassero su quelle misere e le scannassero a colpi di jatagan e di scimitarra.
Il gran vizir rimaneva silenzioso, fissando i suoi sguardi sulla croce che il sacerdote teneva sempre alta. Le donne singhiozzavano, i fanciulli strillavano ed i giannizzeri rumoreggiavano in fondo al tempio, impazienti di cominciare la strage.
Ad un tratto tutte quelle madri, come se una ispirazione divina le avesse colpite nel medesimo tempo, sollevarono fra le braccia i loro fanciulli e li mostrarono al Gran vizir, singhiozzando:
– Risparmia i nostri figli! Sono innocenti!
Il generalissimo degli islamiti abbassò la scimitarra che aveva già alzata per ordinare la carneficina, poi, volgendosi verso i suoi guerrieri, gridò con voce tuonante:
– Tutte