Credendo che si trattasse di qualche nuova sfida, come succedeva di frequente, i comandanti veneti, che non volevano d’altronde irritare troppo quei barbari, che tenevano ormai nelle loro mani le sorti della disgraziata città, dopo un breve consiglio, acconsentirono, promettendo che non avrebbero aperto il fuoco prima del mezzodì.
Dieci minuti dopo che i cavalieri erano tornati al campo, gli assediati che si erano radunati sulle mura e sui bastioni, non fidandosi delle promesse di quei barbari, videro spiegarsi nella pianura le innumerevoli orde nemiche, sfilando per battaglioni, come in una grande rivista.
S’avanzavano prima gli artiglieri dalle vesti variopinte e gli ampi calzoni, seguiti da duecento colubrine trainate da superbi cavalli arabi impennacchiati e infioccati e con ricche gualdrappe rosse; poi s’avanzavano le compagnie dei giannizzeri, quei terribili guerrieri che formavano il nerbo dell’esercito turco, uomini che non avevano paura della morte e che una volta lanciati, nè spade, nè colubrine, nè moschetti potevano arrestare.
Poi si avanzavano gli albanesi, coi loro sfarzosi costumi, le sottanine bianche ed ampie ed i ricchi e vasti turbanti e le fasce riboccanti di pistoloni e di jatagan; gli irregolari dell’Asia Minore, armati di archibugi, di alabarde e perfino di balestre usate cent’anni prima, coperti di cotte d’acciaio scintillanti e forniti di ampi scudi che forse datavano dal tempo delle crociate ed infine immense colonne di cavalieri arabi ed egiziani, avvolti nei loro mantelli bianchi, abbelliti all’estremità da larghe righe rosse ed infioccati.
Al suono delle trombe ed al fragore dei timballi, lo sterminato esercito si schierò su varie colonne nella vasta pianura, formando un immenso semicerchio, i cui margini si perdevano all’orizzonte.
– Che vogliano spaventarci mostrando la potenza dei loro reggimenti? – chiese Perpignano a Capitan Tempesta, che guardava, non senza un fremito di terrore, sfilare quelle masse enormi.
– Non lo so rispose la giovane duchessa. – Qualche cosa però deve succedere.
Aveva appena pronunciate quelle parole, quando le trombe cessarono bruscamente di echeggiare ed i timballi diventarono muti.
Le colonne si aprirono dinanzi al bastione di San Marco e gli assediati videro avanzarsi il Gran vizir Mustafà, tutto coperto di ferro brunito, con un ampio turbante sormontato da un gran pennacchio, che scintillava come se fosse cosparso di diamanti.
Montava un cavallo arabo dal pelo bianco, dalla criniera lunghissima, bardato con lusso inaudito. Aveva un enorme ciuffo di magnifiche penne di struzzo fissato sulla testa, briglie larghe come usano oggidì i marocchini e i berberi, intagliate e dorate, una grande gualdrappa di velluto cremisi con frange d’oro che gli scendeva fino al garrese e le fonde delle pistole di velluto azzurro con due grandi mezzelune d’argento.
Lo seguiva un araldo con una lunga tromba ed uno stendardo di seta verde, poi veniva su una giumenta bianca una fanciulla, tutta avvolta in un lungo velo candidissimo, adorno di piccole stelle d’oro che impediva di poterla vedere in viso, quindi pascià e capitani, tutti risplendenti nelle loro corazze argentate e cavalieri superbamente vestiti, con turbanti giganteschi e sorreggenti delle aste sormontate dalla mezzaluna con sotto delle code di cavallo.
Il gran vizir, che procedeva al passo, trattenendo con mano ferma il suo ardente destriero, mentre teneva l’altra posata fieramente sull’anca, s’inoltrò fino a trecento metri dal bastione di San Marco, guardando fissi i capitani cristiani, affollati sugli spalti, poi snudò la sua scimitarra e si volse verso i suoi guerrieri, gridando con voce tuonante:
– Ecco come il vostro vizir spezza le sue catene!…
Con una improvvisa speronata fece fare al suo arabo un gran salto che lo portò presso la giumenta, si rizzò sulle corte e larghe staffe e con un terribile colpo della sua arma tagliò netto il collo della fanciulla, facendo volare lontano il capo, senza dubbio bellissimo.
Il corpo della decapitata si mantenne per alcuni secondi ritto sulla sella mentre i bianchi veli si coprivano di sangue, poi stramazzò al suolo, mentre un grand’urlo di raccapriccio s’alzava fra i cristiani.
Il gran vizir asciugò sulla gualdrappa del proprio cavallo la scimitarra, la ringuainò freddamente, poi tendendo il pugno chiuso verso Famagosta, gridò con voce terribile che parve uno scoppio di tuono:
– Ed ora, giaurri, pagherete pel sangue che ho sparso! Ci rivedremo questa notte!
CAPITOLO V. L’assalto di Famagosta
La minaccia del gran vizir dei turchi aveva prodotto un profondo effetto sui capitani cristiani, i quali conoscevano l’audacia e la fermezza di quel formidabile guerriero, cui fino allora aveva sempre arriso la vittoria, nonostante l’estremo valore dei soldati veneti.
Certi di dover subire nella notte un assalto furioso, più tremendo di quanti ne avevano provati fino allora e conoscendo la loro debolezza, dopo che le mine avevano sconquassati i bastioni e le cinte, dietro consiglio del governatore avevano subito preso le disposizioni necessarie per far fronte al terribile pericolo che li minacciava.
I posti di guardia furono raddoppiati, soprattutto sulle torri a difesa dei profondi fossati, quantunque ormai questi fossero così ingombri di macerie da non poter più servire da ostacolo, e le colubrine furono piazzate nei punti più elevati onde battere e coprire di mitraglia gli assalitori.
Gli abitanti, già avvertiti, malgrado la loro estrema debolezza causata dai lunghi digiuni, non ignorando che se i turchi fossero riusciti a varcare le cinte, non sarebbero sfuggiti alle loro scimitarre, erano prontamente accorsi a rinforzare i bastioni più maltrattati colle macerie levate dalle loro abitazioni, già quasi tutte demolite da quel lungo assedio.
Una profonda angoscia si era impadronita di tutti. Sentivano per istinto che la fine di Famagosta era prossima e che una orribile strage stava per succedere.
L’esercito turco, venti volte superiore agli assediati, sicuro della sua strapotente forza, e della immensa superiorità delle sue artiglierie, stanco di quel lunghissimo assedio che lo stremava da mesi e mesi, doveva tentare uno di quei formidabili sforzi a cui nessuno può resistere: nè la saldezza dei cuori meglio corazzati contro la paura, nè il valore disperato, nè la fede incrollabile.
Durante la giornata, gli assedianti si mantennero tranquilli, limitandosi a sparare solo, di quando in quando, qualche colpo di colubrina, più per rettificare il tiro dei loro pezzi, che per danneggiare le opere di difesa degli assediati; però si vedeva nel loro campo un movimento insolito.
Gruppi di cavalieri partivano ad ogni istante dalle tende del Gran vizir e dei pascià, recandosi alle estreme ali dell’esercito per portare ordini e si scorgevano gli artiglieri trascinare i loro pezzi verso le trincee, mentre bande di minatori si disperdevano per la pianura strisciando come serpenti per non farsi mitragliare.
I capitani cristiani, Bragadino, Martinengo, Tiepolo e l’albanese Manoli Spilotto, dopo aver tenuto consiglio col governatore della piazza, Astorre Baglione, avevano deciso di prevenire l’assalto dei turchi con un furioso bombardamento, onde tener lontani i minatori ed impedire alle artiglierie turche di piazzarsi indisturbate nei punti migliori.
Ed infatti, appena scoccato il mezzodì, tutti i pezzi che guarnivano i bastioni e le torri aprirono tosto un fuoco infernale coprendo la pianura di ferro e di palle di pietra, mentre i più abili archibugieri, nascosti dietro i parapetti ed i merli, gareggiavano fra di loro nel freddare i minatori che s’avanzavano incessantemente, cercando di ripararsi dietro le ineguaglianze del suolo.
Quel rimbombo assordante durò fino al calar del sole, causando agli assedianti non poche perdite e smontando parecchie colubrine; poi, appena le tenebre furono fitte, squillarono le trombe d’allarme per far accorrere l’intera popolazione alla difesa delle cinte.
L’esercito turco si spiegava allora per la tenebrosa pianura, in masse enormi, pronto a tentare un assalto generale.
Suonavano pure le trombe turche e rullavano i