Mater dolorosa. Gerolamo Rovetta. Читать онлайн. Newlib. NEWLIB.NET

Автор: Gerolamo Rovetta
Издательство: Public Domain
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Жанр произведения: Зарубежная классика
Год издания: 0
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intitolarsi Cattolico di Sua Maestà o Conservatore, o qualche cosa di simile. In una parola era uno di quei tanti pasticci dei quali ciascuno mangia una fetta brontolando dopo che si è disgustato la bocca e lo stomaco. I moderati se ne servirono per i loro connubi durante le lotte elettorali: poi lo sconfessarono perchè era un partito anticostituzionale; e i clericali, adoperatolo come mezzo di passaggio nelle pubbliche amministrazioni, non ne vollero poi più sapere, perchè i Cattolici di S. M., riconoscevano il regno dei buzzurri. Credendo di aver innalzato un edificio, Prospero Anatolio non aveva eretto altro che un impalcato che viene demolito appena compiuta la fabbrica.

      E in quanto alla separazione del duca d’Eleda e della baronessa Renata… fu una grave, una dolorosa separazione, specialmente per il duca. Oltre la perdita della donna, Prospero Anatolio aveva tutte le consuetudini da rompere e da rifare; si trovava sbilanciato, gettato fuori dell’orbita, privo del centro di rotazione, dove la sua vanità poteva sfoggiare tutti i suoi apparati, dove egli passava ed era fatto passare per un grand’uomo, e dove le sue idee, le sue aspirazioni, i suoi gusti trovavano sempre una corrispondenza simpatica. Adesso, e a quell’età, come avrebbe potuto sostituire la Haute-Cour?… Non c’era più che sua moglie: e a tal uopo egli andava e tornava assiduo, persistente, a Santo Fiore, alleandosi quel buon don Gregorio, il quale, pover’uomo, circondato, abbindolato con ogni arte, era rimasto preso dalla diplomazia e dalla politica del duca d’Eleda, che per la prima volta, fra le tante, era riuscito ad ottenere un buon successo.

      Nulla di meno la posizione rimaneva sempre la stessa; e anche quest’ultima visita era terminata col malumore di Prospero.

      Quella sera, dopo la partenza del babbo, Lalla era nel salotto rincantucciata nella poltrona, spettinata, cogli occhi e il naso rossi, tutta avvolta nello scialle, perchè sentiva, o almeno dicea di sentire, quei brividi di freddo che corrono fra carne e pelle, dopo un pianto dirotto. Ma, mentre tutte le altre volte in simili casi usava di ritirarsi per tempo, quella sera invece ai fermò dopo il pranzo, e quando udì la nota voce di Sandro diede una scappatina in tinello, dicendo alla mamma che lo volea pregare di serbarle vivo il primo cardellino maschio che gli capitasse in ragnaia. Il cardellino, naturalmente era un pretesto; ma da ciò non è lecito supporre che l’amicizia fra i due giovani fosse in così breve tempo diventata più intima. Sandro era ancora le mille miglia lontano dall’immaginare la fortuna, o la disgrazia, che lo aspettava. Se non che da quel giorno i discorsi della signorina lo impacciavano; erano sempre pieni di frizzi, di allusioni ai suoi amori, allusioni e frizzi che lo facevano poi andare in bestia contro quella chiacchierona della Nena. Quando Lalla lo pregava di alcune commissioncelle, compere di lana, o di lapis, o di carta per il disegno, nelle gite che egli frequentemente faceva in città, o quando si tramava qualche clandestino passaggio della biblioteca circolante – basta – soggiungeva Lalla – basta che la signora Ottavia non se n’abbia a male; – oppure: – mi raccomando, non lo sappia la signora Ottavia, se no mi leva gli occhi!

      Il giovinotto restava muto, e arrossiva; ma pur si sentiva lusingato della buona opinione che Lalla aveva di lui. Quella parte di seduttore fortunato non gli spiaceva punto. Ma le cose, intanto, non progredivano; l’amicizia era stazionaria, ci voleva una qualche occasione: e poichè l’occasione non manca mai di venire, quando c’è chi la vuole, così capitò anche al Frascolini, la sera stessa che si maritò la Pierina, la sorella della Nena, l’altra figliuola di Ambrogio.

      La duchessa d’Eleda, che aveva fatto tenere a battesimo la Nena, fece anche cresimar la Pierina. Ambrogio, a Santo Fiore, s’era guadagnata una condizione intermedia fra il pensionato e il servitore. Era l’unica persona, quel vecchio, che a Maria ricordasse sua madre, la povera contessa, la quale, paurosa dei cavalli com’era, non si fidava che di lui solo, e quando usciva in carrozza, non voleva saperne d’altro cocchiere.

      Ambrogio, entrato fanciullo in palazzo, s’era ammogliato là dentro; là dentro aveva veduto crescere le sue figliuole; là dentro moriva rispettata, soccorsa, la sua compagna, e anche lui non ne sarebbe uscito che per andare a raggiungerla in camposanto. Maria, che per tutto ciò gli voleva bene, non solo aggiunse del proprio alla piccola doterella della Pierina, ma le regalò un buon corredo, e volle che la sera degli sponsali si facesse il rinfresco in una stanza del palazzo – uno stanzone grandissimo, a terreno, che metteva in giardino – e finalmente con una finezza di sentire che fece piangere il buon uomo di commozione e d’orgoglio, volle che sua figlia e miss Dill assistessero alla piccola festa.

      Dagli sposi e da Ambrogio erano stati invitati al rinfresco il sindaco con la sua signora, don Vincenzo, padre e figlio Frascolini, il medico condotto, il farmacista e la Ottavia. Tutti costoro, in certo modo, rappresentavano le autorità, la parte eletta della riunione, quantunque anche il cuoco, la Luigia e Lorenzo, avessero molte pretese.

      L’ampio locale era abbellito con frasche di semprevivi, con tappeti e con tende, vecchie e stinte, che di sera facevano ancor buona figura, ed era illuminato da lucerne di diverse epoche e di diverso sistema, candelabri scompagnati alti e bassi e, all’intorno, attaccati al muro con cordicelle, a due a due, tutti i fanali delle carrozze, lustri e belli che parevano di argento. Il rinfresco doveva consistere in una focaccia, paste, caffè, liquori, vino rosso, Asti spumante e castagne a lesso e arrosto; ma il cuoco, d’accordo colla Luigia, aveva preparato una sorpresa; il suo regalo di nozze agli sposi; un enorme tacchino farcito() e un croccante, rappresentante la torre di Sebastopoli, che teneva chiuso fra le mura il solito canarino. Don Vincenzo, richiesto, aveva ceduta per la festa e fatta trasportare a proprie spese la spinetta del Coro, e l’organista, che era anche maestro di scuola, veterinario, amico del sindaco, di Ambrogio, del signor Niso e nemico dichiarato del medico, suonava, con maggiore agilità in chiave di violino che in chiave di basso, il valzer, la polca, la mazurca, tutto a tempo di marcia, per non generar confusioni.

      La Pierina era vestita di bianco, come una sposa di lusso. Quel vestito era un regalo della padrona, uno de’ suoi rifiuti, che la buona ragazza avea messo da parte per tirarlo fuori appunto il dì delle nozze, e pareva nuovo, così attillato a quel suo corpo fiorente, dal quale traboccavano felicità, amore e salute.

      Quella però che più di tutte spiccava per la eleganza e lo sfarzo era la maestosa moglie del farmacista, con un bell’abito nuovo fiammante, lana e seta, color sangue di drago, scollato, da far vedere certe cose di cui Giunone sarebbe rimasta invidiosa. Il sesso maschile le era sempre vicino, d’intorno, di dietro, davanti, con un orgasmo, un calore, che veniva tutto da lei. Don Vincenzo; il quale con miss Dill sembrava prediligere un altro genere di bellezza, pure le discorreva serrato alle sottane, col naso rosso, le labbra tremanti e, se abbassava gli occhi sovente, non è che guardasse per terra. Tutto questo entusiasmo, mentre indispettiva e faceva allungare il muso a Sandrino, sollecitava invece l’amor proprio del signor Niso, più rifinito, più sfrittellato, più malandato del solito, il quale, in un cantuccio della tavola, pelava un piatto di castagne lessate, colle unghie orlate di nero, che ricordavano tutti gli empiastri della farmacia. Ed egli le pelava, quelle bollenti castagne, le pelava con ogni cura, poi le infilava colla punta del coltello e le offriva in giro alle signore. Di tanto in tanto l’Ottavia, quella sera tutta moine e carezze con lui, per ricompensarlo della spesa dell’abito, gli passava da canto, allargava la bocca, e il signor Niso v’introduceva una tigliata, scoccandole dopo qualche buffetto sull’abito per far cascare le briciole di focaccia o di zucchero, che vi s’erano fermate sopra; e, quand’ella si allontanava le teneva dietro cogli occhi, sospeso, col coltello nell’una mano e la castagna da pelare nell’altra, e pareva, dall’espressione del viso, che egli rifacesse mentalmente la somma di tutto quanto gli era costato quell’abito, di fattura, guarnizioni, fodere e stoffa.

      Ma non era l’egregio farmacista, era piuttosto la signora Veronica quella che più si doveva compiangere. Quasi non bastasse per la sua piena sventura la stoffa lana e seta, color sangue di drago, c’era di più il Frascolini, geloso e attento all’Ottavia, e che non aveva ballato o discorso con lei neppure una volta; trascuranza proprio imperdonabile, stata notata con dispiacere anche dal signor Domenico che ne fece le proprie lagnanze con Frascolini padre, nella sua triplice qualità di marito, di amico e di sindaco.

      Anche il canarino, il canarino prigioniero nella torre del croccante, giocò alla signora Veronica un tiro birbone. Appena demolita Sebastopoli, l’uccelletto, fra le risa e le grida dell’allegra comitiva, uscì vivo di sotto i minuzzoli e andò a svolazzare attorno