E allora, confusamente, nella crisi fatale di questa passione, si venne delineando un piano di amore, imperfetto, vago, ma che conduceva a un sol desiderio: quello di rivedersi, di stare insieme, lungamente, per sempre. Ognuno di loro, invece di perdere la propria forza in vani conati di dolore, avrebbe cercato di adoperarla a vincere tutti gli ostacoli morali e materiali per potersi riunire, fra quindici, fra otto giorni, in un paese solitario, tranquillo, in un ambiente di poesia e d’amore, dove potessero passare sconosciuti o indifferenti alla folla, o ravvolti in una comune indulgenza. Chi di loro due disse la parola: Venezia? Chissà! Fu così, naturalmente, che i loro cuori si fermarono su quel mite orizzonte di arte e di quiete, su quell’ambiente di case mute e sommerse nel languore che la morte precede, su quella città dove l’amore pare abbia la sua naturale atmosfera di pensiero, di lirica umana. Venezia, Venezia! Fu il nome amabile, seducente, che videro brillare ogni giorno, ogni ora; innanzi alla loro immaginazione; parola magica che fece scomparire tutte le altre; sillabe ravvolgenti e incantatrici da cui le loro anime prese, legate, non si potettero svincolare mai più. E man mano le loro lettere andarono perdendo tutto quel carattere d’indefinito, tutta quella vaghezza di contorni, quel continuo agitarsi errabondo dello spirito, quella incoerenza di anime deliranti: la passione addossata al muro della realtà, era entrata in un periodo positivo, pratico, preciso. Ogni giorno, sotto la volontà inflessibile, sotto la doppia inflessibile volontà, il loro piano acquistava linea, colore, cifra; il suo aspetto di fatto si veniva così minutamente facendo reale, che, già quasi quasi, per Grazia e per Ferrante, parea di vivere in quella realtà. Accanto a questi particolari definiti, matematici, dove la loro insofferenza si appagava, come per il fatto compiuto, ogni tanto, ma sempre più scarsamente, si veniva allogando qualche scoppio improvviso di frase amorosa: oppure una parola soltanto: Venezia. Anche l’aspetto degli amanti era mutato. Si eran fatti, nell’esteriore, freddi, risoluti, distratti in un pensiero o in un’azione, sempre occupati in qualche cosa, schivando, con la freddezza, la folla degli estranei e anche quella degli amici. Parlavan poco, brevemente. Non più le belle passeggiate della penisola sorrentina vedevano comparire il bruno volto pensoso di donna Grazia: ma in una stanza accanto alla sua erano aperti tutti i bauli, tutte le valigie della casa e la cameriera, che le voleva bene, ignorava ancora la destinazione che prendeva la sua signora. Ella vedeva che ogni giorno donna Grazia veniva chiudendo, in quei bauli e quelle valigie, tutto quanto aveva di prezioso come valore e come ricordo: ella vedeva che donna Grazia si aggirava per la casa, in vestaglia di lana bianca stretta alla cintura da un mistico cordone di seta nera, guardandosi intorno come trasognata, considerando le pareti vuote e i cassetti aperti, come se volesse portare via ancora qualche cosa.
– La signora parte per un lungo viaggio? – chiese timidamente, un giorno, la fanciulla devota.
– Lungo, lungo… – mormorò vagamente, donna Grazia.
– E io debbo venire?
– No… Meglio che non veniate – soggiunse donna Grazia.
– Tutta sola, un lungo viaggio? – osò chiedere ancora la ragazza.
Donna Grazia chinò il capo e non rispose: un velo di tristezza le passò sulla faccia. Tacquero.
E Ferrante, come il giorno della partenza si approssimava, non andava più nei soliti ritrovi di Roma autunnale: male o bene, ma con una febbre di uomo preoccupato, aveva cercato di risolvere alcuni affari stringenti, assorbito, distratto, accettando qualunque peggiore risoluzione, purchè fosse immediata. Quando i suoi intimi lo vedevano ricomparire, per un momento, gli domandavano, sorpresi:
– Ma che fai, dunque?
– Parto – rispondeva lui, pensando ad altro.
– Dove vai?
Egli faceva un cenno vago, come di paese molto lontano. Per discrezione, gli intimi non chiedevano altro: sapevano quale tragedia morale avesse sconquassata la sua famiglia e molti supposero qualche improvvisa, bizzarra decisione. Anzi, la voce ne corse, avvolta in veli misteriosi. Una sera, un amico più affettuoso, più insistente, andò a casa di lui: e lo trovò solo, fumando, con le finestre aperte, ma col caminetto acceso dove buttava delle carte, dopo averle lette. Sul tavolino vi erano altri pacchi di lettere, un grosso portafoglio di pelle, tutto sdrucito, due o tre libri dalla legatura usata e un paio di minute pistole nella loro scatola che pareva quella di un gioiello.
– Che fai, ti vuoi ammazzare? – domandò ridendo l’amico.
– Forse – rispose Ferrante, ridendo un poco, ma poco. Nè dissero altro, mentre nel caminetto le lettere avvampavano allegramente.
Così, nell’alba bigia in cui donna Grazia partì da Sorrento per Napoli, mentre aveva detto ai suoi amici che sarebbe partita solamente la sera, in quell’alba bigia, la sua devota cameriera, vedendola andar via, avvolta nel grande mantello bruno, avvolta nel bruno velo che le circondava il capo, il viso, il collo, si chinò, commossa, a baciarle la mano:
– Io la rivedrò, nevvero? – chiese, cercando di trattenere le lacrime.
– Forse – disse donna Grazia, andandosene, senza voltarsi.
Tanto la fatalità li aveva vinti, ambedue.
Donna Grazia non vedeva nè il mite sole che rallegrava le vie di Napoli, nè le azzurrità fini del cielo e del mare, nè la folla lieta che si godeva quel giorno soave: chiusa nella carrozza da nolo, guardando ogni istante il piccolo orologio sospeso alla cintura pur senza vederne l’ora, ella divorava lo spazio con la mente, cercava di ripetere per la millesima volta il calcolo del tempo e dello spazio, per chetare la propria impazienza. Sarebbe partita da Napoli per Roma alle due e cinquantacinque, col treno più celere, tutta sola nel suo compartimento; sarebbe giunta a Roma alle otte e trentacinque della sera; alla stazione avrebbe ritrovato Ferrante e dopo un’ora e mezzo, in cui non sarebbero neppure entrati in Roma, sarebbero ripartiti, via Firenze e Bologna, per Venezia, insieme. Insieme! Pensando, ripensando, pronunciando sottovoce questa parola, ella vedeva scomparire l’ora, il tempo, lo spazio tutto, una nebbia le scendeva sugli occhi, una lieve vertigine le confondeva ogni moto. Insieme! Fu macchinalmente che pagò il cocchiere, scendendo alla partenza, nella stazione, stringendo fra le mani il sacchetto dove erano i suoi valori più preziosi. La grande galleria coperta dove si prendono i biglietti era quasi vuota. Ella non vi badò.
– Di prima, per Roma – disse, affannando un po’ al bigliettinaio.
– Ecco – fece quello – ma si affretti, perchè il treno parte.
Improvvisamente, presa da una orribile paura, ella si mise a correre, vedendo appena la sua strada, urtando le persone, lasciando appena il tempo alla guardia di tagliare il biglietto, arrivando sul terrapieno, appena a tempo per vedere il treno delle due e cinquantacinque allontanarsi lentamente. Ella tese le braccia e gridò, come se avesse potuto fermarlo. Un facchino sorrise; mentre gli impiegati della stazione, raccolti in gruppo, la guardavano con curiosità. Alla paura ella sentì subentrare una grande angoscia e una grande vergogna: rientrò nella sala di aspetto, deserta, si andò a buttare in un cantuccio, stringendo le labbra per non singhiozzare dietro il velo, stringendo nelle mani nervose, convulsamente, il manico di cuoio della borsetta. Perdere il treno, che miseria, che disgrazia ridicola, che tragedia buffa! Le pareva un’avventura così sciocca, così volgare che non sembrava possibile fosse capitata proprio a lei, nel momento supremo in cui si decideva la crisi del suo amore; era fremente di sdegno e di onta. Tanta forza di volontà, tanto impeto vincitore, tanto magnetismo trionfante di amore, tanta elettricità condensata… e farsi buttare a terra da un orologio che non va, o da un cocchiere che non ha saputo sferzare il suo cavallo. Avrebbe pianto di collera. Vediamo, quale era la piccola, meschina causa, la causa stupida per cui tutto l’edifizio era crollato? E cercava, invano, di ricordarsi: se era stata la propria lentezza nell’annodarsi