– Sentite – disse. – Io ho conosciuta quella soave donna a Livorno, quattro anni fa. Era una polacca; si chiamava Anna; aveva un marito brutale, e che ne era molto, molto geloso. Ella era piccola, delicata, con certi lunghi e folti capelli fulvi e una salute così delicata, che il più piccolo soffio di vento la faceva tossire. Così leggiadra e così debole, io l’ho amata più di tutte le donne opulente, trionfali, maestose, l’ho amata più di qualunque donna abbia mai incontrata, più di qualunque donna potrò mai incontrare sul mio cammino…
– Ella vi ha amato? – chiese ansiosamente donna Grazia.
– Sì – disse Giorgio con semplicità, – Era buona e pia; ma mi ha amato, con tanto ingenuo trasporto, che io consumato alle esaltazioni della passione, fui scosso per la prima volta. Era così geloso il marito, che non le lasciava un’ora di libertà: qualche volta soltanto, quando ella andava in chiesa, poichè ella era cattolica e lui ateo. Bene, la cercai in chiesa: ella tremava, povera piccola, poichè diceva che questo era un sacrilegio, un’offesa a Dio, il quale ci avrebbe puniti, nell’amore nostro. Ma non poteva fuggirmi come io non potea trattenermi dal seguirla dovunque, dovunque…
Ferrante e Grazia, ora si guardavano.
– Tanto che – soggiunse Giorgio, preso dall’amarezza eccitante della sua narrazione – tanto che qualche cosa fu detta al marito; e da un giorno all’altro egli decise di partire. Oh quella notte! Coi piedi nudi nelle pianelle, ravvolta in uno scialle, tremando di freddo e di paura, Anna ebbe il coraggio di lasciare la sua stanza, senza svegliare suo marito e di venire da me, disperata, soffocando i singhiozzi. Ogni minuto che passava, di quella notte, poteva metterci in pericolo di morte, entrambi, eppure non sapevamo dividerci, delirando di amore e di dolore. Quando dovette lasciarmi, ella s’inginocchiò per terra e disse una breve preghiera, e sempre inginocchiata, giurò sopra un piccolo crocifisso di argento che le pendeva dal collo, che per il giorno venti di ottobre, alle dieci di sera, ella si sarebbe trovata a Venezia, ad aspettarmi: e che solo la morte avrebbe potuto impedirglielo…
– Venne? – domandò Grazia.
– Sì – riprese Giorgio – venne. – Aveva giurato. Io era da dieci giorni all’albergo Danieli, nascosto, inquieto, folle talvolta di paura, talvolta di speranza. Venne. Ma era morente, la piccola adorata; nè io seppi mai come aveva potuto sfuggire alla sorveglianza del marito, e quale lotta l’aveva ridotta in quello stato. Pure fingeva di star bene, per amarmi, per amarmi assai, sempre meglio, sempre più, mentre discendeva precipitosamente alla morte…
– Una breve stagione d’amore? – chiese Ferrante.
– Diciotto giorni. – Una sera che era andato fuori, costretto da un dovere inrecusabile, trattenendomi due o tre ore, al ritorno, non la ritrovai più. Era venuto il marito, improvvisamente, e l’aveva portata via. Per due giorni girai Venezia come un pazzo, cercandola. Non credevo a una immediata partenza. Poi mi misi disperatamente in via per la Polonia…
– E la raggiungeste? – disse Grazia, quasi affannando.
– No – fece Giorgio – era morta per viaggio.
I tre amici, come si avanzava l’ora pomeridiana, uscirono dallo stabilimento e si avviarono lentamente verso la spiaggia lagunare dove ancorava il vaporetto che doveva ricondurli a Venezia.
– Voi avete dovuto molto soffrire di quella morte – osservò mestamente Grazia che camminava fra i due uomini, rivolgendosi a Giorgio.
– Molto: ma per poco tempo. Sapete che il mondo dove viviamo e la vita che facciamo, non ci permette di soffrire che intensamente.
– È vero – disse Ferrante.
– Però – soggiunse Giorgio – quella poveretta è stata per me la grande, fuggente, sparente, idealità, buona e pura di cui tutti abbiamo bisogno per vivere, sia essa una finzione o una realtà, una donna o un’idea. Intendete ora perchè chiamo Venezia un pietoso pellegrinaggio; perchè Venezia mi sembra la tomba dove è sepolta tutta la poesia della mia vita; e perchè quando mi sento divenire perverso a furia di frivolezze e di scetticismo, io vengo qui a ricordare la dolce creatura vissuta e morta solo per l’amore.
S’imbarcavano, soli, sul vaporino; poichè niuno faceva più il tragitto dal Lido a Venezia. Rosso, rotondo, come disco di rame arroventato, il sole tramontava, basso sull’orizzonte. Erano seduti tutti tre sulla terrazzina di prora e tacevano. A un tratto Grazia, scuotendosi, disse:
– Povera donna! Avrebbe potuto vivere, amare, esser felice…
– Chissà! – disse profondamente Giorgio. – Se non fosse morta lei, sarebbe morto l’amore.
– È vero – -disse Ferrante.
– È vero – disse Grazia.
Nè più sino alla sera riparlarono di tal soggetto: tennero compagnia a Giorgio fino a che egli ripartì, alle dieci e mezzo per Roma, discorrendo quietamente e freddamente di arte, di poesia, di viaggi, della società romana e napoletana, cui appartenevano. Invece di prendere la gondola, per ritornare alla loro casa, in quell’avanzata ora notturna, essi, per un tacito accordo, se ne andarono per le strette vie, a piedi, ombre rasentanti le alte muraglie dei palazzi patrizii, salienti e discendenti per i ponticelli, fermantisi ogni tanto, per tacito accordo, a contemplare le nere acque dei canali. Non si davano il braccio, non si tenevano per la mano, non si parlavano: andavano col capo chino, senza neanche guardarsi, quasi l’uno non si accorgesse più della compagnia dell’altro. La stazione era assai lontana, dalla loro casa; il tragitto era lungo e camminando così vi misero più di un’ora. Arrivati innanzi alla piccola porta di terra, con una chiave Ferrante la schiuse. Ma non entrarono: si guardarono, immobili, con una gelida occhiata.
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