– Forse, – disse Cesarino. – Intanto, Rosa, bisogna che tu prepari tutto, presto… tutto quello che abbiam fatto a Ninnì, le mie robe e le tue anche. Si va via stasera. Siamo aspettati a pranzo. Senti: io ti lascio tutto…
– Che dice, signorino mio! – esclamò Rosa.
– Tutto… tutto quel po’ che ho con me… in denaro. Ben altro ti debbo, per tutto l’affetto… Zitta, zitta! No ne parliamo. Tu lo sai, e io lo so. Basta. Anche quei pochi mobili… Noi troveremo di là un’altra casa… Tu farai di questa ciò che vorrai. Non mi ringraziare. Prepara tutto e andiamo via. Tu, prima. Non saprei andarmene, lasciandoti qua. Poi, domani, verrai a trovarmi, e io ti lascerò la chiave e tutto.
La vecchia Rosa obbedì, senza rispondere. Aveva i cuore così gonfio che, ad aprir la bocca per parlare, singhiozzi, certo, e non parole le sarebbero venuti fuori. Preparò tutto, anche il suo fagotto.
– Lo lascio qua? – domandò. – Tanto, se doman debbo ritornare…
– Sì, certo, – le rispose Cesarino. – E ora, eccoti: bacia Ninnì… Bacialo, e addio.
Rosa si prese in braccio il piccino che guardava un po’ sbigottito; ma non poté in prima baciarlo: bisognò che si sfogasse un pezzo, pur dicendo:
– È una sciocchezza piangere… perché domani… Ecco a lei, signorino… se lo prenda. E coraggio, eh? Un bacio anche a lei… A domani!
Se ne andò senza voltarsi indietro, soffocando i singhiozzi nel fazzoletto.
Subito Cesarino sprangò la porta. Si passò una mano su i capelli, che gli si drizzarono, irti. Andò a posare Ninn sul letto: gli mise in mano l’orologino d’argento, perché stesse quieto. Scrisse in gran fretta poche righe su un foglio di carta: la donazione a Rosa della povera suppellettile di casa. Poi scappò in cucina; preparò lesto lesto un buon fuoco; lo portò in camera; chiuse gli scuri, l’uscio e al lume della lampadina che la vecchia Rosa teneva sempre accesa davanti un immagine della Madonna, si stese sul letto accanto a Ninnì. Questo allora lasciò cadere sul letto l’orologino, e – al solito – alzò la mano per strappare dal naso al fratello le lenti. Cesarino, questa volta, se le lasciò strappare; chiuse gli occhi e si strinse il bimbo al petto:
– Quieto, ora, Ninnì, quieto… Facciamo la nanna bellino, la nanna.
L’ALTRO FIGLIO
– C’è Ninfarosa?
– C è. Bussate.
La vecchia Maragrazia bussò, e poi si calò a sedere pian piano sul logoro scalino davanti la porta.
Era la sua sedia naturale; quello, come tant’altri davanti le porte delle casupole di Farnia. Lì seduta, o dormiva o piangeva in silenzio. Qualcuno, passando, le buttava in grembo un soldo o un tozzo di pane; ella si scoteva appena dal sonno o dal pianto; baciava il soldo o il pane; si segnava, e riprendeva a piangere o a dormire.
Pareva un mucchio di cenci. Cenci unti e grevi, sempre gli stessi, d’estate e d’inverno, strappati, sbrindellati, senza più colore e impregnati di sudor puzzolente e di tutto il sudicio delle strade. La faccia giallastra era un fitto reticcio di rughe, in cui le palpebre sanguinavano, rovesciate, bruciate dal continuo lacrimare; ma, tra quelle rughe e quel sangue e quelle lagrime, gli occhi chiari apparivano come lontani, quelli d’un infanzia senza memorie. Ora, spesso, qualche mosca le si attaccava, vorace, a quegli occhi; ma ella era così sprofondata e assorta nella sua pena, che non l’avvertiva nemmeno; non la cacciava. I pochi capelli, aridi, spartiti sul capo, le terminavano in due nodicini pendenti su gli orecchi, i cui lobi erano strappati del peso degli orecchini massicci a pendaglio portati in gioventù. Dal mento, giù giù fin sotto la gola, la floscia giogaja era divisa da un solco nero che le sprofondava nel petto cavo.
Le vicine, messe a sedere su l’uscio, non le badavano più. Stavano quasi tutto il giorno lì, e chi rattoppava panni, chi sceglieva legumi, chi faceva la calza, e insomma, tutte occupate in qualche lavoro; conversavano davanti a quelle loro casupole basse, che prendevano luce dall’uscio; case e stalle insieme, dal pavimento acciottolato come la strada; e di qua la mangiatoja, dove qualche asinello o qualche mula scalpitavano, tormentati dalle mosche; di là, il letto alto, monumentale; e poi una lunga cassapanca nera, d’abete o di faggio, che pareva una bara; e due o tre seggiole impagliate; la madia; e poi, attrezzi rurali. Su le pareti grezze, fuligginose, per unico ornamento, certe stampacce da un soldo, che volevano raffigurare i santi del paese. Per la strada intanfata di fumo e di stalla ruzzavano ragazzi cotti dal sole, alcuni ignudi nati, altri con la sola camicina, a brendoli, sudicia; e le galline razzolovano, e grugnivano, soffiando col grifo tra la spazzatura , i porcellini cretacei.
Quel giorno si parlava della nuova comitiva d’emigranti che la mattina dopo doveva partire per l’America.
– Parte Saro Scoma, – diceva una. – Lascia la moglie e tre figliuoli.
– Vito Scordìa, – soggiungeva un’altra, – ne lascia cinque e la moglie gravida.
– È vero che Càrmine Ronca, – domandava una terza, – se lo porta con sé il figliuolo di dodici anni, che già andava alla zolfara? Oh Santa Maria, il ragazzo, almeno, avrebbe potuto lasciarglielo alla moglie. Come farà quella povera cristiana, ora, a darsi ajuto?
– Che pianto, che pianto, – gridava lamentosamente una quarta più là, – tutta la notte, in casa di Nunzia Ligreci! Il figlio Nico, tornato appena da soldato, vuol partire anche lui!
Udendo queste notizie, la vecchia Maragrazia si turava la bocca con lo scialle per non scoppiare in singhiozzi. La foga del dolore le rompeva però, dagli occhi sanguigni, in lagrime senza fine.
Da quattordici anni erano partiti anche a lei per l’America due figliuoli; le avevano promesso di ritornare dopo quattro o cinque anni; ma avevano fatto fortuna laggiù, specialmente uno, il maggiore, e si erano dimenticati della vecchia mamma. Ogni qual volta una nuova comitiva di emigranti partiva da Farnia, ella si recava da Ninfarosa, perché le scrivesse una lettera, che qualcuno dei partenti doveva per carità consegnare nelle mani dell’uno o dell’altro di quei figliuoli. Poi seguiva per un lungo tratto dello stradone polveroso la comitiva, che si recava, sovraccarica di sacchi e di fagotti, alla stazione ferroviaria della prossima città, fra le madri, le spose e le sorelle che piangevano, disperate; e, camminando, guardava affitto affitto gli occhi di questo o di quel giovane emigrante che simulava una romorosa allegria per soffocare la commozione e stordire i parenti che lo accompagnavano.
– Vecchia matta, – qualcuno le gridava. – O perché mi guardate così? Vorreste cavarmi gli occhi?
– No, bello, te li invidio! – gli rispondeva la vecchia – Perché tu li vedrai i miei figliuoli. Di’ loro come m’hai lasciata; che non mi ritroveranno più, se tardano ancora.
Intanto là le comari del vicinato seguitavano a fare il conto di quelli che partivano il giorno appresso. A un tratto un vecchio dalla barba e dai capelli lanosi, che se n’era stato finora zitto ad ascoltare, steso a pancia all’aria e fumando la pipa in fondo alla straducola, rizzò il capo che teneva appoggiato a una bardella d’asino, e, posandosi le grosse mani rocciose sul petto:
– S’io fossi re, – disse, e sputò, – s’io fossi re, nemmeno una lettera farei più arrivare a Farnia da laggiù.
– Evviva Jaco Spina! – esclamò allora una delle vicine. – E come farebbero qua le povere mamme, le spose, senza notizie e senz’ajuto?
– Sì! Ne mandano assai! – brontolò il vecchio, e sputò di nuovo. – Le madri, a far le serve; e le spose vanno a male. Ma perché i guaj che trovano laggiù non li dicono, nelle loro lettere? Solo il bene dicono, e ogni lettera è per questi ragazzacci ignoranti come la chioccia: – pïo pïo pïo – se li chiama e porta via tutti quanti! Dove son