– E allora perché? – disse di nuovo, quasi a sé stesso il dottore.
Rocco Trupìa ruppe in un ghigno
– Perché? Perché mia madre dice che non sono suo figlio!
– Come?
– Signor dottore, se lo faccia spiegare da lei. Io non ho tempo da perdere: gli uomini di là mi aspettano con le mule cariche di concime. Debbo lavorare e… guardi, mi sono tutto rimescolato. Se lo faccia dire da lei. Bacio le mani.
E Rocco Trupìa se n’andò curvo, com’era venuto, con le gambe larghe, ad arco, e la mano alla schiena. Il dottore lo seguì con gli occhi per un tratto, poi si voltò a guardare i piccini, ch’eran rimasti come basiti, e la moglie. Questa congiunse le mani e, agitandole un poco e socchiudendo amaramente gli occhi, emise il sospiro delle rassegnate:
– Lasciamo fare a Dio!
Ritornato in paese, il dottore volle venir subito in chiaro di quel caso così strano, da parer quasi inverosimile; e ritrovando la vecchia ancora seduta su lo scalino davanti alla porta della sua casa, come l’aveva lasciata, la invitò a salire con una certa asprezza nella voce.
– Sono stato a parlare con vostro figlio, alla Casa della Colonna, – poi le disse. – Perché mi avete nascosto che avevate qua quest’altro figlio?
Maragrazia lo guardò, dapprima smarrita, poi quasi atterrita; si passò le mani tremanti su la fronte e sui capelli, e disse:
– Ah, signorino: io sudo freddo, se vossignoria mi parla di quel figlio. Non me ne parli, per carità!
– Ma perché? – le domandò, adirato, il dottore. – Che v’ha fatto? Dite su!
– Nulla, m’ha fatto, – s’affrettò a rispondere la vecchia. – Questo debbo riconoscerlo, in coscienza! Anzi, m’è sempre venuto appresso, rispettoso… Ma io… vede come tremo, signorino mio, appena ne parlo? Non ne posso parlare! Perché quello lì, signor dottore, non è figlio mio!
Il giovane medico perdette la pazienza, proruppe:
– Ma come non è figlio vostro? Che dite? Siete stolida o matta davvero? Non l’avete fatto voi?
La vecchia chinò il capo, a questa sfuriata, socchiuse gli occhi sanguigni, rispose:
– Sissignore. E sono stolida, forse. Matta, no. Dio volesse! Non penerei più tanto. Ma certe cose vossignoria non le può sapere, perché è ancora ragazzo. Io ho i capelli bianchi, sto a penare da tanto tempo io, e n’ho viste! N’ho viste! Ho visto cose, signorino mio, che vossignoria non si può nemmeno immaginare.
– Che avete visto, insomma? Parlate! – la incitò il dottore.
– Cose nere! Cose nere! – sospirò la vecchia scotendo il capo. – Vossignoria non era allora neanche nella mente di Dio, e io le ho viste con questi occhi che hanno pianto da allora lagrime di sangue. Ha sentito parlare vossignoria d’un certo Canebardo?
– Garibaldi? – domandò il medico, stordito.
– Sissignore, che venne dalle nostre parti e fece ribellare a ogni legge degli uomini e di Dio campagne e città? N’ha sentito parlare?
– Sì, sì, dite! Ma come c’entra Garibaldi?
– C’entra, perché vossignoria deve sapere che questo Canebardo diede ordine, quando venne, che fossero aperte tutte le carceri di tutti i paesi. Ora, si figuri vossignoria che ira di Dio si scatenò allora per le nostre campagne! I peggiori ladri, i peggiori assassini, bestie selvagge, sanguinarie, arrabbiate da tanti anni di catena… Tra gli altri ce n’era uno, il più feroce, un certo Cola Camizzi, capobrigante, che ammazzava le povere creature di Dio, così, per piacere, come fossero mosche, per provare la polvere – diceva, – per vedere se la carabina era parata bene. Costui si buttò in campagna, dalle nostre parti. Passò per Farnia, con una banda che s’era formata, di contadini; ma non era contento, ne voleva altri, e uccideva tutti quelli che non volevano seguirlo. Io ero maritata da pochi anni e avevo già quei due figliucci, che ora sono laggiù, in America, sangue mio! Stavamo nelle terre del Pozzetto che mio marito, sant’anima, teneva a mezzadria. Cola Camizzi passò di là e si trascinò via anche lui, mio marito a viva forza. Due giorni dopo, me lo vidi ritornare come un morto; non pareva più lui; non poteva parlare, con gli occhi pieni di quello che aveva veduto, e si nascondeva le mani, poveretto, per il ribrezzo di ciò ch’era stato costretto a fare… Ah, signorino mio, mi si voltò il cuore in petto quando me lo vidi davanti così: «Nino mio!» gli gridai (sant’anima!) «Nino mio, che hai fatto?» Non poteva parlare. «Te ne sei scappato? E se ti riafferrano, ora? Ti ammazzeranno!» Il cuore, il cuore mi parlava. Ma egli, zitto, sedette vicino al fuoco, sempre con le mani nascoste così, sotto la giaccia, gli occhi da insensato, e stette un pezzo a guardare verso terra; poi disse: «Meglio morto!». Non disse altro. Stette tre giorni nascosto; al quarto uscì: eravamo poverelli, bisognava che lavorasse. Uscì per lavorare. Venne la sera; non tornò… Aspettai, aspettai, ah Dio! Ma già lo sapevo me l’ero immaginato. Pure pensavo: «Chi sa! Forse non l’hanno ammazzato; forse se lo sono ripreso!». Venni a sapere, dopo sei giorni, che Cola Camizzi si trovava con la sua banda nel feudo di Montelusa, che era dei Padri Liguorini, scappati via. Ci andai, come una pazza. C’erano, dal Pozzetto, più di sei miglia di strada. Era una giornata di vento, signorino mio, come non ne ho più viste in vita mia. Si vede il vento? Eppure quel giorno si vedeva! Pareva che tutte le anime degli assassinati gridassero vendetta. Agli uomini e a Dio. Mi misi in quel vento, tutta strappata, ed esso mi portò: gridavo più di lui. Volai: ci avrò messo appena un’ora ad arrivare al convento, che stava lassù lassù, tra tante pioppe nere. C’era un gran cortile, murato. Vi s’entrava per una porticina piccola piccola, da una parte, mezzo nascosta, ricordo ancora, da un gran cespo di capperi radicato su, nel muro. Presi una pietra, per bussare più forte; bussai, bussai; non mi volevano aprire; ma tanto bussai, che finalmente m’aprirono. Ah, che vidi!
A questo punto, Maragrazia si levò in piedi, stravolta dall’orrore, con gli occhi sanguigni sbarrati, e allungò una mano con le dita artigliate dal ribrezzo. Le mancò la voce in prima, per proseguire.
– In mano… – poi disse, – in mano… quegli assassini…
S’arrestò di nuovo, come soffocata, e agitò quella mano, quasi volesse lanciare qualcosa.
– Ebbene? – domandò il dottore, allibito.
– Giocavano… là, in quel cortile… alle bocce… ma con teste d’uomini… nere, piene di terra… le tenevano acciuffate pei capelli… e una, quella di mio marito… la teneva lui, Cola Camizzi… e me la mostrò. Gettai un grido che mi stracciò la gola e il petto, un grido così forte, che quegli assassini ne tremarono; ma, come Cola Camizzi mi mise le mani al collo per farmi tacere, uno di loro gli saltò addosso, furioso; e allora, quattro, cinque, dieci, prendendo ardire da quello, gli s’avventarono contro, se lo presero in mezzo. Erano sazii, rivoltati anche loro della tirannia feroce di quel mostro, signor dottore, e io ebbi la soddisfazione di vederlo scannato lì, sotto gli occhi miei, dai suoi stessi compagni, cane assassino!
La vecchia s’abbandonò su la seggiola, sfinita, ansimante, agitata tutta da un tremito convulso.
Il giovane medico stette a guardarla, raccapricciato, col volto atteggiato di pietà, di ribrezzo e di orrore. Ma passato il primo stupore, come poté ricomporre le idee, non seppe comprendere che nesso quella truce storia potesse avere col caso di quell’altro figlio; e glielo domandò.
– Aspetti, – rispose la vecchia, appena poté riprender fiato. – Quello che prima si ribellò, quello che prese le mie