Ella aveva seguito però con grande attenzione il racconto e gli occhi le brillavano d’ira all’udire di tanti sforzi fatti invano. Il signor Lanucci raccontava con lentezza, parlando continuava a mangiare, deponeva la forchetta dopo ogni boccone e scandeva le sillabe per far risaltare maggiormente la sua attività e la sua astuzia. Ridiceva tutti gli argomenti da lui adoperati per convincere. Con l’uno aveva parlato in genere dei vantaggi delle assicurazioni e della colpa che commette chi non si assicura; con l’altro – era un amico o un noto filantropo – del proprio bisogno di venir incoraggiato; con tutti aveva esaltata la Società che rappresentava. La signora Lanucci lo stava ad ascoltare allontanandosi alquanto dal tavolo e sgretolando accanitamente coi denti dei pezzettini di pane.
Ogni parola nella famigliuola provocava facilmente delle dispute.
– Poveri i centesimi? Perché? Hai un modo curioso tu di trattare le cose! Come se fosse impossibile che io faccia degli affari!
L’ira accumulatasi in lui durante la giornata si scatenò. Rimaneva fermo al suo posto senza gesticolare, ma gli tremavano le labbra. Gustavo rideva nel piatto.
Alfonso lo calmò; trovandosi anche lui di tempo in tempo in imbarazzi finanziarî, comprendeva il dolore del vecchio. Gli disse che la signora aveva voluto scherzare, non offenderlo, e che certamente essa più di tutti aveva il desiderio di veder prosperare i suoi affari.
Dalle parole di Alfonso il Lanucci fu portato a tutt’altro ordine d’idee; si rammentò che il confortatore poteva divenire un suo cliente e gli chiese se non avesse l’intenzione di assicurarsi, – forse contro gli accidenti?
La signora Lanucci protestò:
– Eh! vuoi lasciarlo in pace con i tuoi affari?
Il Lanucci rimase interdetto; altrettanto imbarazzato era Alfonso, dolente dell’imbarazzo del Lanucci che supponeva fosse già pentito della poca delicatezza dimostrata.
– Lo lasci parlare, – disse alla signora, – è interessante e non ci si perde niente!
Aveva trovato il modo di ridurre la cosa a una questione puramente accademica.
– Ma sì! – accentuò il Lanucci, – io non lo costringo mica ad assicurarsi o ad assicurarsi per mio mezzo! Farà lui dove vorrà! Però una persona che può è male abbastanza che non si assicuri. Può cadergli una tegola sul capo; se non è assicurato non guadagna nulla dovendo stare a letto, mentre se è assicurato fa un buon affare.
Alfonso, per cavarsela, con tutta sincerità gli spiegò le sue condizioni finanziarie. La signora Lanucci protestava, il vecchio invece con tutta calma cercava obbiezioni, però negando anche lui che il rifiuto avesse bisogno di motivazioni.
Ogni sera la famiglia Lanucci usciva dopo cena per pigliare, dicevano, un po’ d’aria. Non era questo solo lo scopo della passeggiata. La signora ne aveva introdotto l’uso per compensare Lucia dell’oretta sul Corso in compagnia delle altre sartine cui l’aveva costretta di rinunziare. Anche Gustavo li accompagnava, ma poi non rientrava. Alfonso lui pure qualche volta, annoiandovisi ma fingendo tanto bene di divertirsi da finire col crederci lui stesso.
La signora Lanucci si alzò da tavola e, indossato uno zambelucco sdruscito ma greve, attese in piedi che Lucia avesse terminata la sua teletta più complicata di molto. Il vecchio nel suo pastrano troppo piccolo che la moglie gli aveva aiutato ad infilare continuava a parlare, sempre ancora sperando di terminare la giornata con un affare; ma Alfonso, che per un istante era stato là là per cedere, si rammentò ad un tratto di tutte le dolorose difficoltà del suo stato finanziario e con voce alquanto alterata espose in cifre le sue entrate e i suoi esborsi concludendo che assolutamente non poteva neppur sognarsi di aumentare le spese. Per timore di vedersi gettato in nuovi imbarazzi finanziarî ebbe frasi incisive; non voleva udire altri ragionamenti diffidando della propria fermezza. Poi gli parve che il signore ed anche la signora Lanucci lo salutassero più freddamente del solito, quantunque la signora non omettesse di augurargli la buona fortuna. Lucia lo salutò con un inchino e, augurandogli il buon divertimento, gli porse con gesto studiato la mano affilata.
Alfonso rimasto solo, per lasciar trascorrere ancora qualche poco di tempo prima di recarsi dai Maller che, forse, ancora non avevano terminato di cenare, rilesse la lettera della madre.
Nella lettera la vecchia Nitti parlava molto delle speranze ch’ella riponeva in Alfonso; diceva di aver scritto alla signorina Francesca Barrini governante di casa dei Maller per raccomandarlo. Poi, per tutta la lettera aveva sparso saluti da singoli amici del villaggio di cui la vecchia signora con tutta pazienza indicava nome e cognome con l’aggiunta – ti saluta tanto, – infine due linee di baci ed abbracci e la firma: – tua madre Carolina.
Di sotto però, preceduta da un P.S. c’era la frase: – Da due giorni non sto molto bene; oggi però sto meglio.
IV
Alfonso credeva di avere dello spirito e ne aveva di fatto nei soliloqui. Non gli era stato mai concesso di farne con persone ch’egli stimasse ne valessero la fatica, e, recandosi dai Maller, pensava che un suo sogno stava per realizzarsi. Aveva meditato molto sul modo di contenersi in società e s’era preparato alcune massime sicure sufficienti a tener luogo a qualunque altra lunga pratica. Bisognava parlare poco, concisamente e, se possibile, bene; bisognava lasciar parlare spesso gli altri, mai interrompere, infine essere disinvolto e senza che ne trapelasse sforzo. Voleva dimostrare che si può essere nato e vissuto in un villaggio e per naturale buon senso non aver bisogno di pratica per contenersi da cittadino e di spirito.
La casa del signor Maller era situata in via dei Forni, una via della città nuova, composta di case mancanti d’eleganza all’esterno, grigie, di cinque piani con a pianterreno dei magazzini spaziosi. Non era molto illuminata e, di sera, cessato il movimento dei carri asportanti merci, poco frequentata.
Era piovuto nella giornata e Alfonso, per non infangarsi, camminava rasentando le mura delle case. Trovata la casa, egli rimase alquanto sorpreso nell’atrio. Era illuminato che pareva giorno. Largo, diviso in due parti separate da una scalinata, aveva l’aspetto di un anfiteatro in miniatura. Era completamente deserto e, salendo la scalinata, non udendo che il suono e l’eco dei propri passi, Alfonso credette di essere l’eroe di qualche racconto di fate.
Prima persona che gli si presentò sulle scale fu un vecchio rubizzo dalla barba bianca ben conservata, che scendeva canticchiando. – Chi cerca? – gli chiese, e il tono di quella voce bastò per far capire ad Alfonso che ad onta del suo vestito nero in quella casa si riconosceva in lui alla prima occhiata l’uomo povero.
– Abita qui il signor Maller? – chiese timidamente.
Il volto del vecchio divenne anche più serio; non era possibile che una persona pulita non sapesse dove abitava il signor Maller; cominciava già ad annusare l’accattone.
Si trovavano all’ultima scala per arrivare al primo piano; dal pianerottolo Santo sporse il suo capo ispido come un cardo:
– È un impiegato – gridò; – venga, venga, signor Nitti.
– Oh! Santo! – esclamò Alfonso lieto d’imbattersi in volto conosciuto, e salì le scale in premura.
Il portiere si lisciò la barba:
– Ah! così? – e senza salutare continuò a scendere, dopo pochi passi rimettendosi a canticchiare.
Santo, appoggiato negligentemente alla balaustrata, attese Alfonso senza mutar positura e quando lo ebbe accanto gli disse:
– La introdurrò io – sempre ancora immobile; poi, riflettendo: – È stato invitato dal signor Maller? – domanda che fece credere ad Alfonso che ci fosse una stanza apposita destinata a ricevere gl’impiegati invitati dal signor Maller.
Improvvisamente Santo si mise a camminare celermente verso una porta a destra.
– Scusi un istante, – gridò, e, lasciandolo sulla soglia, entrò nel corridoio con passo frettoloso, aperse la prima porta e la sbatacchiò dietro di sé. Rimasto solo, Alfonso si trovò in una semioscurità nel corridoio tappezzato a colori smorti con due porte per parte ed una in fondo, piccole, colorate in nero lucido.