La Divina commedia / Божественная комедия. Книга для чтения на итальянском языке. Данте Алигьери. Читать онлайн. Newlib. NEWLIB.NET

Автор: Данте Алигьери
Издательство: КАРО
Серия: Lettura classica
Жанр произведения: Поэзия
Год издания: 1320
isbn: 978-5-9925-1285-4
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a noi parlar, s’altri nol niega!».

      82 Quali colombe dal disio chiamate

      con l’ali alzate e ferme al dolce nido

      vegnon per l’aere, dal voler portate;

      85 cotali uscir de la schiera ov’ è Dido,

      a noi venendo per l’aere maligno,

      sì forte fu l’affettuoso grido.

      88 «O animal grazioso e benigno

      che visitando vai per l’aere perso

      noi che tignemmo il mondo di sanguigno,

      91 se fosse amico il re de l’universo,

      noi pregheremmo lui de la tua pace,

      poi c’hai pietà del nostro mal perverso.

      94 Di quel che udire e che parlar vi piace,

      noi udiremo e parleremo a voi,

      mentre che ’l vento, come fa, ci tace.

      97 Siede la terra dove nata fui

      su la marina dove ’l Po discende

      per aver pace co’ seguaci sui.

      100 Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,

      prese costui de la bella persona

      che mi fu tolta; e ’l modo ancor m’offende.

      103 Amor, ch’a nullo amato amar perdona,

      mi prese del costui piacer sì forte,

      che, come vedi, ancor non m’abbandona.

      106 Amor condusse noi ad una morte.

      Caina attende chi vita ci spense».

      Queste parole da lor ci fuor porte.

      109 Quand’ io intesi quell’ anime offense,

      china’ il viso, e tanto il tenni basso,

      fin che ’l poeta mi disse: «Che pense?».

      112 Quando rispuosi, cominciai: «Oh lasso,

      quanti dolci pensier, quanto disio

      menò costoro al doloroso passo!».

      115 Poi mi rivolsi a loro e parla’ io,

      e cominciai: «Francesca, i tuoi martìri

      a lagrimar mi fanno tristo e pio.

      118 Ma dimmi: al tempo d’i dolci sospiri,

      a che e come concedette amore

      che conosceste i dubbiosi disiri?».

      121 E quella a me: «Nessun maggior dolore

      che ricordarsi del tempo felice

      nella miseria; e ciò sa ’l tuo dottore.

      124 Ma s’a conoscer la prima radice

      del nostro amor tu hai cotanto affetto,

      dirò come colui che piange e dice.

      127 Noi leggiavamo un giorno per diletto

      di Lancialotto come amor lo strinse;

      soli eravamo e sanza alcun sospetto.

      130 Per più fiate li occhi ci sospinse

      quella lettura, e scolorocci il viso;

      ma solo un punto fu quel che ci vinse.

      133 Quando leggemmo il disiato riso

      esser basciato da cotanto amante,

      questi, che mai da me non fia diviso,

      136 la bocca mi baciò tutto tremante.

      Galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse:

      quel giorno più non vi leggemmo avante».

      139 Mentre che l’uno spirto questo disse,

      l’altro piangea; sì che di pietade

      io venni men così com’ io morisse.

      142 E caddi come corpo morto cade.

      Canto VI

      Al tornar de la mente, che si chiuse

      dinanzi a la pietà d’i due cognati,

      che di trestizia tutto mi confuse,

      4 novi tormenti e novi tormentati

      mi veggio intorno, come ch’io mi mova

      e ch’io mi volga, e come che io guati.

      7 Io sono al terzo cerchio, de la piova

      etterna, maladetta, fredda e greve;

      regola e qualità mai non l’è nova.

      10 Grandine grossa, acqua tinta e neve

      per l’aere tenebroso si riversa;

      pute la terra che questo riceve.

      13 Cerbero, fiera crudele e diversa,

      con tre gole caninamente latra

      sovra la gente che quivi è sommersa.

      16 Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,

      e ’l ventre largo, e unghiate le mani;

      graffia li spirti ed iscoia ed isquatra.

      19 Urlar li fa la pioggia come cani;

      de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;

      volgonsi spesso i miseri profani.

      22 Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,

      le bocche aperse e mostrocci le sanne;

      non avea membro che tenesse fermo.

      25 E ’l duca mio distese le sue spanne,

      prese la terra, e con piene le pugna

      la gittò dentro a le bramose canne.

      28 Qual è quel cane ch’abbaiando agogna,

      e si racqueta poi che ’l pasto morde,

      ché solo a divorarlo intende e pugna,

      31 cotai si fecer quelle facce lorde

      de lo demonio Cerbero, che ’ntrona

      l’anime sì, ch’esser vorrebber sorde.

      34 Noi passavam su per l’ombre che adona

      la greve pioggia, e ponavam le piante

      sovra lor vanità che par persona.

      37 Elle giacean per terra tutte quante,

      fuor d’una ch’a seder si levò, ratto

      ch’ella ci vide passarsi davante.

      40 «O tu che se’ per questo ’nferno tratto»,

      mi disse, «riconoscimi, se sai:

      tu fosti, prima ch’io disfatto, fatto».

      43 E io a lui: «L’angoscia che tu hai

      forse ti tira fuor de la mia mente,

      sì che non par ch’i’ ti vedessi mai.

      46 Ma dimmi chi tu se’ che ’n sì dolente

      loco se’ messo, e hai sì fatta pena,

      che, s’altra è maggio, nulla è sì spiacente».

      49 Ed elli a me: «La tua città, ch’è piena

      d’invidia sì che già trabocca il sacco,

      seco mi tenne in la vita serena.

      52 Voi cittadini mi chiamaste Ciacco:

      per la dannosa colpa