pagine. Ebbi un ultimo scoraggiamento, chi lo crederebbe? quando non me ne rimanevan più da scrivere che una quarantina; ma fu breve; dopo di che mi prese un'attività impetuosa, gioiosa, febbrile, che durò fino al momento che scrissi l'ultima parola. Ricordo come se fosse ieri l'ora, il tempo, la luce che inondava la mia stanzina, l'odore di primavera che di tratto in tratto mi portava il vento, e persino l'ordine in cui eran disposti i miei fogli sul tavolino, quando scrissi con mano agitata la parola: — Fine. — Dio buono, era un ben meschino lavoro quello ch'io finivo, appetto alle fatiche ventenni (rido del paragone) del Gibbon, del quale avevo letto pochi giorni innanzi la bellissima prefazione alla
Storia della decadenza dell'impero romano! Eppure, in quel momento, sentii anch'io, come lui, l'immensa gioia della libertà riacquistata, e mi parve di affacciarmi a una nuova vita. Mia madre non sapeva nulla; il giorno prima le avevo detto che mi rimaneva un'altra settimana di lavoro; e la mattina medesima le avevo annunziato che appena scritta l'ultima pagina avrei rimesso in ordine i miei libri che da parecchi mesi erano tutti sossopra, e fatto un
ripulisti generale sul tavolino, che era un monte di carte e di prove di stampa da non potercisi raccapezzare. L'ordine nella mia stanza sarebbe stato il segnale della fine del mio lavoro. Mi misi dunque in fretta e in furia, ma senza fare rumore, per non mettere sull'avviso mia madre, a ordinare, a pulire, a sgombrare, col tremito in cuore di esser sorpreso, trattenendo ogni momento il respiro per sentire se nessuno s'avvicinava, ridendo da me come un fanciullo e soffocando le risa, finchè tutti i libri furono al posto, tutte le cartacce nella cesta, e sul tavolino non rimase che il calamaio, la penna e gli ultimi fogli del manoscritto. Allora sedetti ed aspettai; il cuore mi batteva forte, mi sentivo il volto acceso, sudavo. Passarono alcuni minuti, nessuno veniva: cominciai a tossire; mi misi a cantarellare. Allora udii nella stanza vicina il passo di mia madre, mi alzai, le corsi incontro. Essa mi guardò e mi domandò con aria di meraviglia: — Che cos'hai? — Io le accennai il tavolino e dissi: — Guarda! — Guardò, non capì subito, stette un momento sopra pensiero, e poi gridò con uno slancio di gioia: — Ma dunque hai finito! — Io le gettai le braccia al collo, ed essa mormorò con voce commossa: Povero figliuolo!
Tutt'a un tratto mi sentii mutare quella gioia vivissima in un sentimento quasi di mestizia. Mia madre se ne accorse e mi domandò: — A che pensi? — O madre mia, risposi, penso che per meritare questa soddisfazione avrei dovuto fare ben altro lavoro! Nondimeno son contento (e qui soggiunsi una frase che soglio dirle quando son contento, e che la fa sempre ridere) e ti ringrazio d'avermi messo al mondo.
Ciò detto, le porsi il braccio, uscimmo dal mio gabinetto, e facemmo la nostra entrata trionfale nella stanza da pranzo dov'era il resto della famiglia.
Vorrei che la donna che mi ama m'avesse visto in quel punto, perchè, lo dico francamente, ero bello.
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