I felici successi de' Francesi in Italia fecero temere al papa che potessero valere ad estendere di troppo il loro dominio fra noi, e perciò ritiratosi dalla lega di Cambrai, dopo aver ricuperato alcune terre della Chiesa, si unì alla Repubblica di Venezia dichiarando che voleva liberare l'Italia dal giogo straniero, chiamando però altri stranieri in aiuto. L'8 giugno 1510 fece intimare al duca di Ferrara, come suo feudatario, di non molestare i Veneziani, di separarsi dai Francesi e di non fabbricare più sale in Comacchio a pregiudizio delle saline di Cervia ritornate al papa. E perchè il duca stimò di maggior interesse rimanere nell'alleanza di Francia, il papa lo fulminò il 9 agosto di una scomunica estendibile a qualunque gli porgesse aiuto e che lo dichiarava decaduto; «con tutta l'altra serie (dice il Muratori) di maledizioni e pene spirituali e temporali e parole pregnanti, che inventate contro i più perversi eretici passarono poi in uso per sostenere i fini politici contro de' cattolici»[42]. Al cardinale Ippolito fu pure intimato di portarsi immediatamente a Roma, sotto pena della perdita de' suoi beni ecclesiastici.
Fu giuoco forza che il cardinale abbandonasse il fratello e s'incamminasse a Roma, o almeno alla volta di quella, in segno di obbedienza. Giunto a Modena, munì l'Ariosto di sua credenziale al papa, nella quale, esponendo risentirsi di un vecchio malore in una gamba, chiedea dilazione che gli permettesse di fare il viaggio a piccole riprese: e raccomandando specialmente all'Ariosto di procurargli un salvocondotto per tranquillizzarsi del timore di vedersi posto in prigione a motivo dell'odio di cui insieme col duca si vedea fatto segno, lo mosse a portarsi in gran fretta e per la quarta volta nella metropoli del mondo. — Fu detto che messer Lodovico non rinvenne il papa a Roma, ma in una sua villa di delizie presso il mare; che forse non ottenne udienza o l'ebbe brevissima e tutta spirante sdegno e minaccia, e che Giulio II volle far gittare in mare l'Ariosto, il quale a stento potè salvarsi fuggendo e temendo sempre di essere inseguito[43]. Una lettera di Benedetto Fantini segretario del cardinale narra invece che il poeta trovò il pontefice in Castello a Roma, che ottenne tosto udienza, e, quel che più muove interesse, riporta il dialogo passato fra i due illustri personaggi (Doc. VII). Messer Lodovico parlò arditamente in favore del suo principale più che non parrebbe convenirsi di fronte all'altiera e collerica natura di Giulio II; e sebbene quest'ultimo rifiutasse di prorogare per iscritto il termine assegnato nel monitorio e di rilasciare il salvocondotto richiesto, diede però a voce assicurazioni tali in proposito da poter credere che l'Ariosto giunse «A calmar la grand'ira di Secondo», per servirmi delle sue stesse parole (Sat. II). Ma la lettera del Fantini, la quale manca della seconda metà del foglio, non esclude che seguitasse a narrare essersi l'udienza risoluta da parte del papa in uno scoppio d'ira per ulteriori insistenze dell'Ariosto: come infatti rileviamo da una lettera del cardinale Ippolito in data di Massa, ultimo d'agosto 1510, diretta ad altro cardinale non indicato nella minuta che si conserva in quest'Archivio di Stato, ove leggesi che il gentiluomo (l'Ariosto) mandato come terzo messaggio al papa per una proroga a presentarsi in Roma, «non solamente potette avere grazia o conclusione alcuna da Sua Santità, ma fu minacciato d'essere buttato in fiume se non se le toleva denante, et di fare il simile a ciaschedun altro delli miei che se li appresentasse, soggiungendo, se non andassi a Roma, me privaria de li beneficj et del cappello»; e concludeva col raccomandare la sua causa a quel cardinale[44]. — Da Modena per altro, avanti di partire per Massa (chè voleva sempre mostrarsi in viaggio) scrisse al vescovo Costabili ch'era allora in Firenze di trovargli casa in quella città ove intendeva fermarsi per quindici giorni, e il vescovo rispondendo di averlo fatto, aggiungeva: «però con questi uomini, quali guardano al suo avvantaggio, non si è potuto venire a conclusione se non con il condurla per due mesi. Ma se la S. V. Ill. anderà di lungo a Roma, non gli sarà altro incomodo che la spesa, la quale non credo gli gravi; e avendo mandato quella mess. Lodovico Ariosto innanti, non si potrà giudicare altro che la sia per andare: quando ancora la non andasse, non sarà che avere la casa a suo piacere e comodo». Il cardinale si portò infatti a Firenze; ed essendo sui primi di settembre caduto di cavallo, soffrendone qualche lesione, n'ebbe scusa sufficiente a non proseguire il viaggio per Roma. Il Muratori dice che la caduta fu una finzione[45]; e tale a noi pure sembrerebbe, se, a lode del vero, non avessimo trovata una lettera del duca, 9 settem. 1510 (Doc. VIII), che ricorda questa lieve caduta. Ottenne quindi di rimanere a Firenze ove di continuo scriveva al duca delle lettere in cifra. Avendo poi avuto il buon senno di non aderire agli inviti di alcuni cardinali scismatici che allora trovavansi in Toscana, prese motivo di allontanarsene, e si trasferì a Parma. Ne diè avviso al cardinale di Pavia legato pontificio in Bologna che lodò la prudente risoluzione del cardinale Ippolito, giudicandola meritevole di tornarlo in grazia del papa; ed egli trovandosi più vicino agli Stati di suo fratello, andò più volte a visitarlo celato sotto un'armatura[46] per concertare una forte difesa.
Il papa aveva intanto cominciata la guerra contro il duca, togliendogli le sue terre di Romagna, occupandogli Modena ed altre città, mentre i Veneti minacciavano di ripigliare il Polesine. Molti cittadini di Ferrara erano corsi nella stretta del grave bisogno ad accrescere le fila dei soldati del duca Alfonso: lo stesso poeta, sempre bramoso di quanto promettevagli onore, volle imitar l'esempio di tre altri della famiglia Ariosto[47], e militò nella compagnia comandata dal principe Enea Pio di Carpi, come vedesi dalle due lettere scritte da Reggio nell'ottobre del 1510 al cardinale in Parma (pag. 12 e 14), che anche in questa guerra poteva dirsi di ogni cosa ministro. Ed essendo riescito al duca nel 24 settembre un vantaggioso fatto d'arme alla Polesella, con ricacciare i Veneziani che pur tornavano a molestarlo (Docum. IX), fu in tale occasione che probabilmente si distinse il nostro Lodovico, impadronendosi, come si narra, di una ricca nave nemica sul Po[48].
L'esercito della Chiesa guidato dal duca d'Urbino Francesco Maria della Rovere, nipote del papa, minacciava di un prossimo assedio Ferrara. Cresceva il pericolo aspettandosi da un momento all'altro la resa della Mirandola che Giulio II braveggiando e imprecando stava in persona ad espugnare: perciò invitati i Ferraresi d'ogni ceto e condizione, uomini e donne, preti e frati (non occupati causa l'interdetto ai luoghi sacri) di afforzare con terrapieni le mura della città, postisi tutti al lavoro, questi ripari furono con nobile gara nel dicembre del 1510 condotti a termine[49].
Fecesi una notte dagli uomini d'arme del papa il tentativo di avere una porta della città; ma il duca fu prima avvertito della cosa, e vennero respinti. Anche Gio. Giacomo Trivulzio erasi portato coll'esercito francese in Mantova pronto ad accorrere in aiuto di Alfonso I, che a tale oggetto aveva pagato al re di Francia trentamila scudi d'oro. Perciò il papa abbandonò per allora l'impresa di Ferrara, e avuta in gennaio del 1511 la Mirandola, si ritirò col suo esercito a Bologna, indi a Ravenna, causa le mosse vittoriose del Trivulzio.
Verso la fine del 1511 troviamo l'Ariosto in Ferrara che con lettera accompagna a Giovanni de' Medici legato di Bologna, che poi fu papa, un suo vecchio congiunto arciprete di sant'Agata che voleva rinunciargli la sopravvivenza al proprio beneficio (pag. 20), quantunque Lodovico con azione veramente generosa e amorevole, a quanto ci narra nella Satira I (e tutte sette le Satire fanno conoscere la bontà dell'animo suo), avesse desiderato preferirsi il fratello Galasso o l'altro per nome Alessandro, che «dalla chierca non abborre»; mentr'egli schivo di lasciarsi legare da stole od anella, doveva chiedere al Medici una bolla che lo dispensasse colle più ampie clausole dagli ordini sacri. — Ma Lodovico non andò poi affatto esente da questi legami, potendosi dire piuttosto che li ebbe entrambi ad un tempo.
Si avvicendavano intanto i successi della guerra, ora in vantaggio ora in danno del duca Alfonso, che presso gli Strozzi di Firenze per accattar denaro avea dovuto impegnare le gioie ed ogni oggetto prezioso di casa, riducendosi a mangiare in piatti di maiolica fabbricati da lui, allorchè l'11 aprile 1512 avvenne la sanguinosa battaglia di Ravenna in cui Alfonso I governava l'antiguardia. Fu grande l'impeto de' valorosi Francesi comandati dal prode Gastone di Foix, grande la fermezza nel ributtarli de' gagliardi Spagnuoli capitanati dal vicerè di Napoli Raimondo di Cardona, incerta per ambe le parti la vittoria, che infine si decise a favor dei Francesi. Il duca Alfonso influì non poco a tal esito, avendo saputo cogliere una favorevole posizione dalla quale fulminava di fianco a colpi sicuri i nemici costretti a passar vicino alle bocche delle sue micidiali artiglierie per accorrere al soccorso delle squadre perdenti. Azzuffatisi i due eserciti corpo