Anche se non condividevo quella passione che in alcuni casi si trasformava in fanatismo, ero consapevole che fosse un’attività nella quale ci si può liberare delle proprie inibizioni, e identificarsi in un gruppo al quale normalmente non si appartiene, staccato dalla propria casa e dal proprio lavoro.
Era confortante vedere come la gente si riuniva nei bar a fare il tifo per la propria squadra e a soffrire per qualche evento sfavorevole o qualche goal che non veniva segnato; e, allo stesso modo, emozionarsi fino a scoppiare di gioia quando l’attaccante rubava la palla, avanzava nella propria area e finalmente riusciva a segnare.
Ma se quello era salutare, e anche catartico, perchè liberava le emozioni primarie, quello che più mi interessava era l’effetto che provocava quandoo giocava la squadra nazionale; è un risorgere del sentimento nazionalista, di fraternità nonostante le differenze, di unità nelle avversità.
Qualcosa che ho potuto verificare, attonito, quando sono andato all’estero, quando ho incontrato persone che non conoscevo affatto, che invece mi trattavano come un fratello quando c’era una partita in cui giocava la squadra nazionale, indipendentemente dal paese dove mi trovavo.
Un’ esplosione di gioia ed emozioni che sembrava aver spinto i miei pazienti di quel pomeriggio ad anteporre la loro passione alla seduta.
In quel momento ho sentito chiudersi la porta d’ingresso. La mia segretaria era uscita quasi silenziosamente, proprio com’era lei. Non voleva mai interrompermi, perchè a volte stavo rivedendo dei casi,scrivendo appunti nei rapporti dei pazienti che avevo finito di vedere, o consultando qualcuno di quei grossi libri di psichiatria che si trovavano negli scaffali della libreria.
–Non si finisce mai di imparare, ― le dicevo, quando mi rimproverava che quasi non mi riposavo tra un paziente e l’altro e credo che per questo non si disturbava a dirmi che usciva, anche fosse per prendere un caffè alla macchinetta.
Guardai fuori dalla finestra che dava su un parco vicino, e vidi che aveva cominciato a piovigginare. Erano le cinque del pomeriggio, ma il sole pareva avere fretta e non ci si vedeva quasi più per strada, per quei nuvoloni neri che si erano impadroniti del cielo azzurro che c’era quando era sorto il sole.
“Aspetto che smetta un poco e poi esco”, dissi tra me mentre mi sedevo sul divano. Mi guardai attorno, tra quelle quattro pareti, dove avevo trascorso buona parte della mia giovinezza, tentando di aiutare le persone a migliorare la propria vita, ciò che essi stessi si sono permessi di fare.
Era confortante vedere come alcuni, con un po’ di aiuto, riuscivano a superare quelle piccole asperità della vita che rallentano il nostro sviluppo; invece altri… per quante sedute facciano, erano incapaci perfino di rendersi conto della propria situazione, e il danno era identico sia per se stessi che per la relazione con gli altri.
“Se le pareti potessero parlare!”, pensai tra me e me. Chiusi il rapporto della persona che avevo smesso di vedere, dopo aver fatto alcune annotazioni sui suoi progressi, e mi alzai a cercare il suo fascicolo nello schedario dove tenevo classificati tutti i pazienti che al momento vedevo, lasciando i cassetti in basso per quelli che non avevano superato o avevano abbandonato la terapia.
Stavo cercando il posto dove mettere le carte del paziente in base al nome quando suonò il campanello.
“Che strano!!, ―pensai―, la mia segretaria ha le chiavi; può essere uno dei pazienti che hanno disdetto perchè la partita è stata sospesa per la pioggia, che venga a recuperare l’ora di seduta”, pensai mentre uscivo dallo studio e, attraversata la sala d’aspetto, mi avvicinai alla porta.
Aprendola in fretta, notai che dall’altra parte c’era una donna quantomeno trasandata che aveva iniziato a zampillare acqua sopra lo zerbino dell’ingresso.
–Entri, signora, ― dissi gentilmente mentre le cedevo il passo e mi spostavo dietro la porta.
–Grazie giovanotto, e mi scusi se vengo bagnata.
–Non si preoccupi, nessuno sapeva che il tempo sarebbe cambiato in questo modo,― dissi, giustificando il fatto che non avesse portato un ombrello, visto che si era protetta dalla pioggia solo con un fazzoletto legato sulla testa.
–Dove posso metterelo? ―chiese mentre se lo levava, facendo segno di volerlo strizzare.
– Da quella parte c’è un bagnetto, lì può strizzarlo se vuole, ― le dissi mentre le indicavo e chiudevo la porta alle sue spalle.
–Grazie, non volevo disturbare.
–Nessun disturbo.
La signora entrò in bagno e lì riuscì a scolare nel lavandino la maggior parte dell’acqua che quel fazzoletto era riuscito a frenare, evitandole di bagnarsi.
–E il cappotto?― chiese, uscendo dal bagno.
–Lo metto sull’appendiabiti― dissi mentre se lo toglieva.
–E’ molto gentile ―insistette, ―comunque, sa se il dottore può ricevermi, oggi?― chiese con voce dolce.
–Certo che sì, il dottore sono io,― risposi con un leggero sorriso.
–Ah!, Poichè lei è molto giovane, sembra che sia uscito ieri dall’università,―disse contrariata.
–E’ che mi tratto bene, si sa, un po’ di sport quotidiano e una corretta alimentazione.
–Ah!, allora deve darmi la ricetta, visto che i miei anni, non mi hanno trattato quel che si dice molto bene― ribattè mentre si metteva una mano sulla spalla, suppongo che fosse perchè aveva una vecchia frattura o qualcosa del genere. ―Bene, dove possiamo parlare? ―chiese la signora con tono impaziente.
–Se vuole, nel mio studio,― risposi, stupito da quella domanda.
–Preferisco su quella poltrona― disse, indicando quella della sala d’attesa.
–Allora, se preferisce qui…
–Sí, grazie ―disse, e si diresse verso la poltrona.
La seguii e mi sedetti sulla sedia della segretaria che presi da un lato per mettermi accanto.
–Mi dica, a cosa debbo la sua visita?
–Vede dottore, da diverse notti non riesco a dormire e non so bene perché, ma sta iniziando a darmi fastidio. All’inizio semplicemente mi sentivo stanca, e va bene, questo è sopportabile, ma ora non posso uscire in strada, perchè non so dove sono e cosa devo fare, e se entro in un bar a prendere qualcosa, mi addormento sul tavolo.
–Ha consultato il suo medico per vedere se ha qualcosa?
–Sono andata da tutti gli specialisti, ma nessuno mi ha saputo dire a cosa è dovuto.
–C’è qualcosa che lo ha provocato?, mi riferisco alle prime volte che si è resa conto di questo problema, sa se è successo qualcosa che ha modificato la sua vita, e che come conseguenza ha portato a questo?
– Ecco, niente che mi ricordi,o forse sì, non so se ha qualcosa a che fare, è una scatola che ho trovato in un parco. Non mi giudichi male, ma col poco che prendo di pensione, a volte raccolgo quel che trovo per strada per vedere se è utile. So che accumulo troppe cose, ma non asa il male che ho sopportato in gioventù.
–Accumula?― chiesi, stupito per quel commento.
–Sí, lo so, è molto strano, ma non posso evitarlo. Tutto quello che trovo ha un posto in casa mia, già so dove lo metterò.
–Soffre di Sindrome di Diogene?
–Sì, mi hanno detto così, quelli dei Servizi Sociali, quando sono venuti a sgombrare l’appartamento. Si può immaginare… tutta una vita a conservare cose, da un giorno all’altro me lo hanno lasciato vuoto, senza lasciare il più piccolo oggetto.
–Ma sa che non è salutare?― le chiesi,stupito per il verso che stava prendendo quella conversazione.
–Lo so, però sono