“Non preoccuparti - ti dispiace se ti do del tu? - non sentirti in imbarazzo, ho capito. Ci sarà occasione di rivederci. Vengo qui spesso.
E il buon Miguel mi conosce bene. Vero, Miguel?” esclamò in direzione del cameriere che, a quanto pare, aveva le orecchie puntate su di loro.
Infatti il cameriere, pur stando a buona distanza dal loro tavolo, annuì sorridendo, anche se non pensava che Jorge se ne sarebbe accorto che stava origliando. Jorge alzò il bicchiere di birra nella sua direzione e lo salutò, ammiccando.
“Ok, Jorge, ormai siamo qui e chissà se ci rivedremo. Magari, dammi il tuo numero di telefono che semmai ti chiamo. E ora scusa ma devo proprio andare! Mia madre starà già dando in escandescenze perché sono in 26
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ritardo! Non vorrei litigare con lei anche oggi!”
esclamò la ragazza, riprendendosi la borsa e alzandosi dal tavolo.
“Non sia mai!" esclamò Jorge. Prese il suo bigliettino da visita dalla tasca della giacca e glielo porse.
Quando la ragazza se ne fu andata, Jorge si prese un’altra birra. Di solito non faceva mai cose come questa, e men che mai cercava di attaccare bottone con una ragazza…ma c’era qualcosa in quella Mariana che lo attirava.
Provò a non pensarci, ma l’impulso di correre da lei e conoscerla meglio lo perseguitava.
Non erano solo le lunghe gambe di Mariana, ma anche un interesse professionale.
Quell’anello… pensò tra sé e sé, quasi per giustificare il suo interesse. E l’eventuale invito a cena della ragazza, se davvero lei gli avesse telefonato…
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CAPITOLO QUINTO
Maestro Jacobo
L'amico più intimo dell'ingegnere Salgado era il Maestro Jacobo Aguilar. I due, oltre ad essere compagni di Loggia ed essere entrambi laureati, condividevano anche una vera passione per i libri antichi, e passavano lunghe ore a leggere libri, analizzarli, revisionarli…e ciò non solo per conto della Massoneria ma anche per gusto personale.
Erano eccitati come bambini ogni volta che arrivava un pacco da parte di una casa editrice o di un collezionista. Il Maestro Jacobo Aguilar era il proprietario della libreria “El Compás”, situata all'angolo tra Calle Libertad e Calle 15ª, proprio al centro della città.
Quando Jacobo ricevette una di quelle famose scatole con i libri dal corriere, lo disse subito all'ingegnere Salgado, il quale ne fu talmente felice che annullò tutti i suoi impegni per quel giorno, tornò a casa, mangiò in fretta e andò a prendere a scuola la sua piccola Mariana, per andare insieme dallo zio Jacobo, come soleva chiamarlo.
Lungo la strada si erano fermati a comprare 28
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un gelato, delle noccioline e dei dolcetti, per festeggiare.
La piccola Mariana si era portata appresso portava anche i suoi libri da colorare e la scatola di matite colorate, perché anche lei da bambina viveva quelle visite come una festa.
Una volta cresciuta, invece, quelle visite cominciarono
a
stufarla
e
poi
da
adolescente…beh, abbiamo già visto che effetto le faceva stare in compagnia di suo padre!
L'ultimo volume del diario di Jacobo Aguilar era il numero XVI, che lui iniziò a scrivere alla fine del luglio 1971 e completò nel febbraio 1972. In esso venivano annotati, a volte in dettaglio, a volte meno, tutto quello che faceva ogni giorno, cioè tutti gli appuntamenti, le persone che incontrava, gli argomenti di cui aveva parlato, i luoghi che aveva visitato…e perfino i suoi appuntamenti mensili col medico e i risultati delle sue analisi!
Questo ultimo volume si trovava ora sotto la gelosa protezione di Donna Julia, vedova di Aguilar, che dopo la morte del marito, del suo amato compagno, aveva cercato in tutti i modi di capire cosa fosse davvero successo.
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La zia acquisita aveva dato segni di ansia eccessiva, dopo il funerale del marito. Si era messa a spulciare quasi con ossessione le pagine di quel diario, trascorrendo notti insonni nella minuziosa ricerca, tra quelle pagine, di una nota, un particolare, insomma qualcosa che le chiarisse i suoi dubbi. Perché lei era fermamente convinta che la morte di Jacobo non fosse dovuta a un incidente!
Ormai il marito non era più con lei, era andato in cielo – sicuramente! – ma Donna Julia sapeva che lui doveva averle lasciato qualche traccia per aiutarla a capire il mistero della sua morte e a sbrogliare quella intricata matassa. E lei, come una certosina, ogni giorno, in ogni suo momento libero, cercava di decifrare quel segno, provando a districarsi tra tutti quegli impegni, quegli appuntamenti e quelle pagine di lunghe annotazioni alla ricerca del bandolo della matassa che avrebbe dovuto condurla alla fine di quel labirinto, come fece Arianna col filo di Teseo …Doveva solo trovare il primo indizio, il primo segno. Gli altri sarebbero venuti a catena.
Ma poi un giorno zia Julia ebbe un’illuminazione. Quel diario non c’entrava niente, era solo un modo per depistare! Il 30
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segno doveva trovarsi nella gigantesca biblioteca di cui Jacobo era proprietario!
Zia Julia ricordò che spesso il marito amava parlare per enigmi, e anche quando traduceva i suoi vecchi libri non lo faceva mai in modo letterale, ma anzi si prendeva delle belle libertà. Spesso se ne usciva con delle metafore, anche molto divertenti. Ad esempio, soleva riferirsi alla visita al mercato rionale sulla Quarta Strada come “il viaggio in Terrasanta”, oppure i lavori di contabilità per conto dei suoi clienti come “ Le scimmie dello zoo”.
Insomma,
amava
prendere
in
giro
avvenimenti e persone. Perché questo era, il caro zio Jacobo, un enigma vivente!
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CAPITOLO SESTO
Fantasmi
Quello che fa Velarde è un lavoro di routine, estremamente noioso. Molti anni fa, però, non lo era. A volte si prendeva delle pause, ma solo se lo voleva.
Era passato del tempo da quando aveva deciso di lasciare le strade per rifugiarsi nel lavoro di archivio: le sue ginocchia non erano più scattanti come una volta. Quindi, il seminterrato
della
Polizia
Federale
Giudiziaria era diventato il suo rifugio, il suo santuario. Centinaia di scatole impilate e ammuffite erano la sua unica compagnia.
Sebbene Velarde ormai non fosse più in attività, amava portare con sé un’arma ben carica, per ogni evenienza. Anche quella era una vecchia arma, ma tenuta in ottime condizioni. IL fatto che l’avesse ricevuta dalle mani di Gustavo Dioz Ordaz lo rendeva, a tutti gli effetti, un poliziotto a vita.
Velarde si sente molto umiliato per il lavoro che fa, anche se ammette che all’inizio gli faceva comodo poter rimanere a far parte del Corpo