Si può essere ― domando io ― più onesti di così?
Ecco qua: tutto quello che aveva rubato al padre egli lo avrebbe rimesso al figliuolo nascituro.
Che colpa ha lui, se io, ― poi, ― ingrato e sconoscente, andai a guastargli le uova nel paniere?
Due, no! eh, due, no, perbacco!
Gli parvero troppi, forse perchè avendo già Roberto, com’ho detto, contratto un matrimonio vantaggioso, stimò che non lo avesse danneggiato tanto, da dover rendere anche per lui.
In conclusione, si vede che ― capitato in mezzo a così brava gente ― tutto il male lo avevo fatto io. E dovevo dunque scontarlo.
Mi ricusai dapprima, sdegnosamente. Poi, per le preghiere di mia madre, che già vedeva la rovina della nostra casa e sperava ch’io potessi in qualche modo salvarmi, sposando la nipote di quel suo nemico, cedetti e sposai.
Mi pendeva, tremenda, sul capo l’ira di Marianna Dondi, vedova Pescatore.
Maturazione.
La strega non si sapeva capacitare.
– Che hai concluso? ― mi domandava. ― Non t’era bastato, di’, esserti introdotto in casa mia come un ladro per insidiarmi la figliuola e rovinarmela? Non t’era bastato?
– Eh no, cara suocera! ― le rispondevo. ― Perchè, se mi fossi arrestato lì, vi avrei fatto un piacere, reso un servizio…
– Lo senti? ― strillava allora alla figlia. ― Si vanta, osa vantarsi per giunta de la bella prodezza che è andato a commettere con quella… ― e qui una filza di laide parole all’indirizzo di Oliva; poi, arrovesciando le mani su i fianchi, appuntando le gomita davanti: ― Ma che hai concluso? Non hai rovinato anche tuo figlio, così? Ma già, a lui, che glien’importa? È suo anche quello, è suo…
Non mancava mai di schizzare in fine questo veleno, sapendo la virtù ch’esso aveva sull’animo di Romilda, gelosa di quel figlio che sarebbe nato a Oliva, tra gli agi e in letizia; mentre il suo, nell’angustia, nell’incertezza del domani, e fra tutta quella guerra. Le facevano crescere questa gelosia anche le notizie che qualche buona donna, fingendo di non saper nulla, veniva a recarle della zia Malagna, ch’era così contenta, così felice della grazia che Dio finalmente aveva voluto concederle: ah, si era fatta un fiore; non era stata mai così bella e prosperosa!
E lei, intanto, ecco: buttata lì su una poltrona, rivoltata da continue nausee; pallida, disfatta, imbruttita, senza più un momento di bene, senza più voglia neanche di parlare o d’aprir gli occhi.
Colpa mia anche questa? Pareva di sì. Non mi poteva più nè vedere nè sentire. E fu peggio, quando per salvare il podere della Stìa, col molino, si dovettero vendere le case, e la povera mamma fu costretta a entrar nell’inferno di casa mia.
Già, quella vendita non giovò a nulla. Il Malagna, con quel figlio nascituro, che lo abilitava ormai a non aver più nè ritegno nè scrupolo, fece l’ultima: si mise d’accordo con gli strozzini, e comprò lui, senza figurare, le case, per pochi bajocchi. I debiti che gravavano su la Stìa restarono così per la maggior parte scoperti; e il podere insieme col molino fu messo dai creditori sotto amministrazione giudiziaria. E fummo liquidati.
Che fare ormai? Mi misi, ma quasi senza speranza, in cerca di un’occupazione qual si fosse, per provvedere ai bisogni più urgenti della famiglia. Ero inetto a tutto; e la fama che m’ero fatta con le mie imprese giovanili e con la mia scioperataggine non invogliava certo nessuno a darmi da lavorare. Le scene poi, a cui giornalmente mi toccava d’assistere e di prender parte in casa mia, mi toglievano quella calma che mi abbisognava per raccogliermi un po’ a considerare ciò che avrei potuto e saputo fare. Mi cagionava un vero e proprio ribrezzo il veder mia madre, là, in contatto con la vedova Pescatore. La santa vecchietta mia, non più ignara, ma a gli occhi miei irresponsabile de’ suoi torti, dipesi dal non aver saputo credere fino a tanto alla nequizia degli uomini, se ne stava tutta ristretta in sè, con le mani in grembo, gli occhi bassi, seduta in un cantuccio, ma come se non fosse ben sicura di poterci stare, lì a quel posto, come se fosse sempre in attesa di partire, di partire tra poco ― se Dio voleva! E non dava fastidio neanche all’aria. Sorrideva ogni tanto a Romilda, pietosamente; non osava più di accostarsele; perchè, una volta, pochi giorni dopo la sua entrata in casa nostra, essendo accorsa a prestarle ajuto, era stata sgarbatamente allontanata da quella strega.
– Faccio io, faccio io; so quel che debbo fare.
Per prudenza, avendo Romilda veramente bisogno d’ajuto in quel momento, m’ero stato zitto; ma spiavo perchè nessuno le mancasse di rispetto.
M’accorgevo intanto che questa guardia ch’io facevo a mia madre irritava sordamente la strega e anche mia moglie, e temevo che, quand’io non fossi in casa, esse, per sfogar la stizza e votarsi il cuore della bile, la maltrattassero. Sapevo di certo che la mamma non mi avrebbe detto mai nulla. E questo pensiero mi torturava. Quante, quante volte non le guardai gli occhi per vedere se avesse pianto! Ella mi sorrideva, mi carezzava con lo sguardo, poi mi domandava:
– Perchè mi guardi così?
– Stai bene, mamma? Mi faceva un atto appena appena con la mano e mi rispondeva:
– Bene; non vedi? Va’ da tua moglie, va’; soffre, poverina.
Pensai di scrivere a Roberto, a Oneglia, per dirgli che si prendesse lui in casa la mamma, non per togliermi un peso che avrei tanto volentieri sopportato anche nelle ristrettezze in cui mi trovavo, ma per il bene di lei unicamente.
Berto mi rispose che non poteva; non poteva perchè la sua condizione di fronte alla famiglia della moglie e alla moglie stessa era penosissima, dopo il nostro rovescio: egli viveva ormai su la dote della moglie, e non avrebbe dunque potuto imporre a questa anche il peso della suocera. Del resto, la mamma ― diceva ― si sarebbe forse trovata male allo stesso modo in casa sua, perchè anche egli conviveva con la madre della moglie, buona donna, sì, ma che poteva diventar cattiva per le inevitabili gelosie e gli attriti che nascono tra suocere. Era dunque meglio che la mamma rimanesse a casa mia; se non altro, non si sarebbe così allontanata negli ultimi anni dal suo paese e non sarebbe stata costretta a cangiar vita e abitudini. Si dichiarava infine dolentissimo di non potere, per tutte le considerazioni esposte più su, prestarmi un anche menomo soccorso pecuniario, come con tutto il cuore avrebbe voluto.
Io nascosi questa lettera alla mamma. Forse se l’animo esasperato in quel momento non mi avesse offuscato il giudizio, non me ne sarei tanto indignato; avrei considerato, per esempio, secondo la natural disposizione del mio spirito, che se un usignuolo dà via le penne della coda, può dire: mi resta il dono del canto; ma se le fate dar via a un pavone, le penne della coda, che gli resta? Rompere anche per poco l’equilibrio che forse gli costava tanto studio, l’equilibrio per cui poteva vivere pulitamente e fors’anche con una cert’aria di dignità a le spalle de la moglie, sarebbe stato per Berto sacrifizio enorme, una perdita irreparabile. Oltre a la bella presenza, alle garbate maniere, a quella sua impostatura d’elegante signore, non aveva più nulla, lui, da dare alla moglie neppure un briciolo di cuore, che forse la avrebbe compensata del fastidio che avrebbe potuto recarle la povera mamma mia. Mah! Dio l’aveva fatto così; gliene aveva dato pochino pochino, di cuore. Che poteva farci, povero Berto?
Intanto le angustie crescevano; e io non trovavo da porvi riparo. Furon venduti gli ori della mamma, cari ricordi. La vedova Pescatore, temendo che io e mia madre fra poco dovessimo anche vivere sulla sua rendituccia dotale di quarantadue