Che colpa ho io se Pomino eseguì con troppa timidezza le mie prescrizioni? che colpa ho io se Romilda, invece d’innamorarsi di Pomino, s’innamorò di me, che pur le parlavo sempre di lui? che colpa, infine, se la perfidia di Marianna Dondi, vedova Pescatore, giunse fino a farmi credere ch’io con la mia arte, in poco tempo, fossi riuscito a vincere la diffidenza di lei e a fare anche un miracolo: quello di farla ridere più d’una volta, con le mie uscite balzane? Le vidi a poco a poco ceder le armi; mi vidi accolto bene; pensai che, con un giovanotto lì per casa, ricco (io mi credevo ancora ricco) e che dava non dubbii segni d’essersi innamorato della figlia, ella avesse finalmente smesso la sua iniqua idea, se pure le fosse mai passata per il capo. Ecco: ero giunto finanche a dubitarne!
Avrei dovuto, è vero, badare al fatto che non m’era più avvenuto d’incontrarmi col Malagna in casa di lei, e che poteva non esser senza ragione ch’ella mi ricevesse soltanto di mattina. Ma chi ci badava? Era, del resto, naturale, poichè io ogni volta, per avere maggior libertà, proponevo gite in campagna, che si fanno più volentieri di mattina. Mi ero poi innamorato anch’io di Romilda, pur seguitando sempre a parlarle dell’amore di Pomino; innamorato come un matto di quegli occhi belli, di quel nasino, di quella bocca, di tutto, finanche d’un piccolo porro ch’ella aveva sulla nuca, ma finanche d’una cicatrice quasi invisibile in una mano, che le baciavo e le baciavo e le baciavo… per conto di Pomino, perdutamente.
Eppure, forse, non sarebbe accaduto nulla di grave, se una mattina Romilda (eravamo alla Stìa e avevamo lasciato la madre ad ammirare il molino), tutt’a un tratto, smettendo lo scherzo troppo ormai prolungato sul suo timido amante lontano, non avesse avuto un’improvvisa convulsione di pianto e non m’avesse buttato le braccia al collo, scongiurandomi tutta tremante che avessi pietà di lei; me la togliessi comunque, purchè via lontano, lontano dalla sua casa, lontano da quella sua madraccia, da tutti, subito, subito, subito…
Lontano? Come potevo così subito condurla via, lontano?
Dopo, sì, per parecchi giorni, ancora ebbro di lei, cercai il modo, risoluto a tutto, onestamente. E già cominciavo a predisporre mia madre alla notizia del mio prossimo matrimonio, ormai inevitabile, per debito di coscienza, quando, senza saper perchè, mi vidi arrivare una lettera secca secca di Romilda, che mi diceva di non occuparmi più di lei in alcun modo e di non recarmi mai più in casa sua, considerando come finita per sempre la nostra relazione.
Ah sì? E come? Che era avvenuto?
Lo stesso giorno Oliva corse piangendo in casa nostra ad annunziare alla mamma ch’ella era la donna più infelice di questo mondo, che la pace della sua casa era per sempre distrutta. Il suo uomo era riuscito a far la prova che non mancava per lui aver figliuoli; era venuto ad annunziarglielo, trionfante.
Ero presente a questa scena. Come abbia fatto a frenarmi lì per lì, non so. Mi trattenne il rispetto per la mamma. Soffocato dall’ira, dalla nausea, scappai a chiudermi in camera, e solo, con le mani tra i capelli, cominciai a domandarmi come mai Romilda, dopo quanto era avvenuto fra noi, si fosse potuta prestare a tanta ignominia! Ah, degna figlia della madre! Non il vecchio soltanto avevano entrambe vilissimamente ingannato, ma anche me, anche me! E, come la madre, anche lei dunque si era servita di me, vituperosamente, per il suo fine infame, per la sua ladra voglia! E quella povera Oliva, intanto! Rovinata, rovinata…
Prima di sera uscii, ancor tutto fremente, diretto alla casa d’Oliva. Avevo con me, in tasca, la lettera di Romilda.
Oliva, in lagrime, raccoglieva le sue robe: voleva tornare dal suo babbo, a cui finora, per prudenza, non aveva fatto neppure un cenno di quanto le era toccato a soffrire.
– Ma, ormai, che sto più a farci? ― mi disse. ― È finita! Se si fosse almeno messo con qualche altra, forse…
– Ah tu sai dunque, ― le domandai, ― con chi s’è messo?
Chinò più volte il capo, tra i singhiozzi, e si nascose la faccia tra le mani.
– Una ragazza! ― esclamò poi, levando le braccia. ― E la madre! la madre! la madre! D’accordo, capisci? La propria madre!
– Lo dici a me? ― feci io. ― Tieni: leggi.
E le porsi la lettera.
Oliva la guardò, come stordita; la prese e mi domandò:
– Che vuol dire?
Sapeva leggere appena. Con lo sguardo mi chiese se fosse proprio necessario ch’ella facesse quello sforzo, in quel momento.
– Leggi, ― insistetti io.
E allora ella si asciugò gli occhi, spiegò il foglio e si mise a interpretar la scrittura, pian piano, sillabando. Dopo le prime parole, corse con gli occhi alla firma, e mi guardò, sgranando gli occhi:
– Tu?
– Da’ qua, ― le dissi, ― te la leggo io, per intero.
Ma ella si strinse la carta contro il seno:
– No! ― gridò. ― Non te la do più! Questa ora mi serve!
– E a che potrebbe servirti? ― le domandai, sorridendo amaramente. ― Vorresti mostrargliela? Ma in tutta codesta lettera non c’è una parola per cui tuo marito potrebbe non credere più a ciò che egli invece è felicissimo di credere. Te l’hanno accalappiato bene, va’ là!
– Ah, è vero! è vero! ― gemette Oliva. ― Mi è venuto con le mani in faccia, gridandomi che mi fossi guardata bene dal metter in dubbio l’onorabilità di sua nipote!
– E dunque? ― dissi io, ridendo acre. ― Vedi? Tu non puoi più ottener nulla negando. Te ne devi guardar bene! Devi anzi dirgli di sì, che è vero, verissimo ch’egli può aver figliuoli… comprendi?
*
Ora perchè mai, circa un mese dopo, Malagna picchiò, furibondo, la moglie, e, con la schiuma ancora alla bocca, si precipitò in casa mia, gridando che esigeva subito una riparazione perchè io gli avevo disonorata, rovinata una nipote, una povera orfana? Soggiunse che, per non fare uno scandalo, egli avrebbe voluto tacere. Per pietà di quella poveretta, non avendo egli figliuoli, aveva anzi risoluto di tenersi quella creatura, quando sarebbe nata, come sua. Ma ora che Dio finalmente gli aveva voluto dare la consolazione d’avere un figliuolo legittimo, lui, dalla propria moglie, non poteva, non poteva più, in coscienza, fare anche da padre a quell’altro che sarebbe nato da sua nipote.
– Mattia provveda! Mattia ripari! ― concluse, congestionato dal furore. ― E subito! Mi si obbedisca subito! E non mi si costringa a dire di più, o a fare qualche sproposito!
Ragioniamo un po’, arrivati a questo punto. Io n’ho viste di tutti i colori. Passare anche per imbecille o per… peggio, non sarebbe, in fondo, per me, un gran guajo. Già ― ripeto ― son come fuori della vita, e non m’importa più di nulla. Se dunque, arrivato a questo punto, voglio ragionare, è soltanto per la logica.
Mi sembra evidente che Romilda non ha dovuto far nulla di male, almeno per indurre in inganno lo zio. Altrimenti, perchè Malagna avrebbe sùbito a suon di busse rinfacciato alla moglie il tradimento e incolpato me presso mia madre d’aver recato oltraggio alla nipote?
Romilda infatti sostiene che, poco dopo quella nostra gita alla Stìa, sua madre, avendo ricevuto da lei la confessione dell’amore che ormai la legava a me indissolubilmente, montata su tutte le furie, le aveva gridato in faccia che mai e poi mai avrebbe acconsentito a farle sposare uno scioperato, già quasi all’orlo del precipizio. Ora, poichè da sè, ella, aveva recato a sè stessa il peggior male che a una fanciulla possa occorrere, non restava più a lei, madre previdente, che di trarre da questo male il miglior partito. Quale fosse, era facile intendere. Venuto, all’ora solita, il Malagna, ella andò via, con una scusa, e la lasciò sola con lo zio. E allora, lei, Romilda, piangendo ― dice ― a calde lagrime, si gittò ai piedi di lui, gli fece intendere la sua sciagura e ciò che la madre avrebbe preteso da lei; lo pregò d’interporsi,