La kasa stava appoggiata allo stipite e giocava con la sua ricca treccia, mentre i riverberi delle fiamme nella grossa fornace formavano delle ombre sul suo viso sporco. Forse potrebbe anche essere bella, se avesse modo di mettersi un po’ in ordine.
“Li ho già lavati da un pezzo, mio signore. Solo che non volevo interrompere i tuoi sogni ad occhi aperti”. Il fatto che fosse il primo apprendista non sembrava contare nel suo rapporto con Lenora. Aveva una mente fina e una lingua tagliente, e se ne serviva con gran gioia.
“Allora faresti meglio a sparire. A meno che tu non voglia finire sotto il martello”.
Uno sguardo carico di disprezzo fu l’unica risposta che ottenne. A volte la offendo senza alcuna ragione.
“Arrivo subito”, aggiunse contrito.
“Tranquillo. In ogni caso devo versare l’acqua nelle botti”.
Ho un gran bisogno di meditare. Anni di lavoro instancabile avevano instaurato una routine che garantiva la qualità del suo lavoro, ma poteva alleggerire la tensione accumulata sul collo e sugli arti solo con qualche ora di profonda concentrazione. L’intera Tarnek era diventata un pallido ricordo dei bei tempi andati, quelli del benessere, ma per Gihtar la cosa non voleva dire nulla. La vita nella bottega del maestro Kulu era la stessa da sempre, e non c’era alcuna possibilità che potesse cambiare in meglio. A differenza di alcuni apprendisti che conosceva, non coltivava illusioni che quell’egoista potesse mai apporre il suo timbro sul riconoscimento ufficiale che lui era progredito abbastanza da avviare la propria produzione. Di ereditare la bottega neanche a parlarne, soprattutto da quando Kulu aveva trasferito il diritto di proprietà alla sua compagna Sirmiona. Anche se si preoccupava solo di condurre una vita agiata, si sapeva che un giorno lei avrebbe ricevuto in eredità anche coloro che le sarebbero toccati in base al loro risveglio. Il suo carattere lo preoccupava ancor di più.
D’altra parte, per quanto le condizioni in cui si trovava fossero difficili, aveva acquisito un’abilità eccezionale nella lavorazione del metallo, e i suoi lavori potevano stare fianco a fianco a quelli dei maestri. Il risveglio gli aveva donato una forza inusuale, con cui poteva temprare anche i pezzi più duri di minerale, e il suo oppressore era anche colui che gli aveva infuso nelle dita una precisione e una sensibilità tali da poter formare con le materie più grezze spettacoli meravigliosi davanti ai quali i potenziali clienti rimanevano rapiti. Tuttavia, questa era una magra consolazione – al posto di rendersi indipendente e realizzare il proprio destino, era un ordinario prigioniero di una volontà superiore. Ti libererò solo quando mi supererai, gli aveva detto una volta il maestro, e per farlo ti serviranno due cicli. Purtroppo, Gihtar ne aveva a disposizione soltanto uno.
La luce di una torcia illuminò le finestre del padiglione all’altra estremità del cortile e lui si affrettò a tornare nella bottega. Kulu e Sirmiona di solito meditavano l’intera notte, e se uno di loro due avesse deciso di passare a controllare, sarebbe stato meglio che non lo trovassero con le mani in mano.
Lenora aveva appena versato l’ultimo secchio in un grosso barile di legno decorato in acciaio.
“Sembra che oggi avremo un controllo. Ho visto una luce”, le disse. Lenora si era risvegliata appena cinque anni prima e riponeva ancora una grande speranza nel proprio futuro.
“Perché vengono adesso?”.
“Come potrei mai saperlo?”.
“Non importa, saranno soddisfatti. Riusciremo a finire l’ordine prima dell’alba”.
“Come se me ne fregasse”.
“Non dire stupidaggini del genere. Ti sentiranno prima o poi”.
Senza degnarsi di risponderle Gihtar afferrò un pesante bollitore e gettò qualche sottile foglia di tellurio nella vaschetta con cui terminava. Le sue mani continuavano a bruciare a causa dei colpi di martello. Era uno dei materiali più difficili da preparare.
“Hai preparato gli stampi per i braccialetti?”.
“Eccoli là”.
“E le pietre? Sono lì dentro?”.
“Calmati”, imprecò lei sottovoce. Sapeva che la cosa la faceva impazzire, ma doveva punzecchiarla. Spesso sprofondava nei propri pensieri, diventando del tutto assente. In un turno precedente lei si era dimenticata di mettere le pietre preziose nelle apposite sedi negli stampi. Li aveva montati vuoti e lo aveva costretto a riempirli con una lega a caldo. L’ordine era enorme, e il risultato catastrofico. La nuova fusione ne aveva compromesso la qualità, e il peccato più grande era il tempo perso. Fuori di sé per la rabbia, Kulu si era rimborsato la perdita sottraendo loro il poco tempo che avevano per il riposo.
Il calor bianco all’interno del forno garantiva una temperatura soddisfacente. Tenendosi a distanza di sicurezza, v’infilò il bollitore e lo spinse fino in fondo. Teneva le mani ben salde sul manico, per poter giudicare in base al calore quando la colata sarebbe stata pronta per essere versata. Era la parte più noiosa della lavorazione, ma anche quella in cui gli inesperti sbagliavano più spesso.
Anche se il lavoro fioriva, Kulu era sempre più spesso insoddisfatto. Il giorno prima aveva portato alcuni dei campioni migliori nel padiglione, e in base a ciò lui aveva immaginato che li aspettasse un lungo lavoro. Di solito i mercanti venivano nella bottega vera e propria o nello scantinato dove era depositata la maggior parte della merce, mentre solo i più seri avevano l’onore di essere accolti nelle stanze private del maestro. Non poteva non notare il panciotto decorato con piastrine di rame addosso al solitamente trascurato Tomul, che svolgeva il servizio di guardia del corpo, anche se era totalmente inutile e particolarmente sbadato. Con sua grande sorpresa, la porta fu aperta da Sirmiona.
“Che vuoi?”, gli chiese bruscamente, fingendo di non notare il contenuto della bisaccia che aveva in mano.
“Cerco il maestro”. Gihtar si sforzava sempre di essere gentile con lei, ma proprio non ci riusciva. Non era mica lei quella a cui doveva i beni che si era guadagnato e un tetto sulla testa.
“Il tuo maestro è uscito ad aspettare un ospite importante. Dimmi cos’hai lì”.
“Stamattina mi ha ordinato di portare questi campioni. Qui ci sono braccialetti incisi, collane di stihira e tellurio e qualche cammeo a bassorilievo”.
Sirmiona sbirciò con disprezzo la borsa senza neanche provare a prenderla.
“Di che bassorilievi si tratta?”.
“I cavalieri delle stelle, l’effigie del dodicesimo canto. E il banchetto dei serafini”.
“Mi sembra più materiale sprecato che un lavoro vero e proprio”.
“Se concedeste loro l’onore del vostro nobile sguardo, vi convincereste subito che state sbagliando”, non nascondeva l’ironia nella propria voce. Nessuno, neppure lei, aveva diritto di schernire il lavoro delle sue mani.
“Lascia tutto qui e sparisci”, sibilò l’arpia e lui con piacere obbedì a quella richiesta. “E sarà meglio che iniziate a lavorare! Dovete guadagnarvi ogni singola goccia del balsamo che versiamo sulle vostre inutili pellacce!”, gli gridò dietro, ma quelle parole non erano nient’altro che una vuota minaccia indegna della sua attenzione.
Le tenaglie divennero spiacevoli al tatto e Gihtar versò con destrezza la liquida colata in uno stampo cilindrico. Altre diciannove volte così. Guardò Lenora che in silenzio infilava perle variopinte su un cinturino perlaceo, osservando con attenzione ciascuna di esse prima di passare alle rimanenti che avrebbero formato la collana. Ne desidera mai qualcuna per sé? Tutte le kase, al di là dello status sociale, amavano la moda e gli accessori. Lei non poteva essere un’eccezione. Venti bracciali e altrettante collane, recitava l’ordine. Senza alcun ulteriore dettaglio. Dopo aver ricevuto le istruzioni, in un primo momento si era stupito. I braccialetti con la superficie liscia erano di uso comune, molto popolari tra il popolo per la semplice ragione che erano di facile fattura e avevano un prezzo abbordabile. Ordinare qualcosa che avrebbe potuto fare praticamente chiunque