Andronico fu comunque veloce e con lo stesso movimento fece roteare una mano e diede a Thor un manrovescio con il guanto, colpendolo alla mandibola e mandandolo a terra su mani e ginocchia.
Thor sentì un orrendo scricchiolio alle costole quando lo stivale di Andronico lo colpì allo stomaco, facendolo rotolare e annaspare.
Thor rimase a terra, respirando affannosamente, con il sangue che gli gocciolava dalla bocca e le costole che gli facevano un male terribile mentre cercava di raccogliere le ultime forze per rialzarsi in piedi. Con la coda dell’occhio vide che Andronico si avvicinava, sorridendo e sollevando l’ascia con entrambe le mani. Thor vide che mirava a tagliargli la testa. Vide nei suoi occhi iniettati di sangue che Andronico non avrebbe avuto pietà, non quella che gli aveva mostrato Thor.
“Questo è quello che avrei dovuto fare anni fa,” disse Andronico.
Andronico gridò e calò l’ascia contro il collo esposto di Thor.
Ma Thor non aveva smesso di combattere: riuscì in un’ultima esplosione di energia, nonostante il dolore, a balzare in piedi e ad attaccare suo padre, prendendolo attorno alle costole e facendolo cadere steso a terra.
Thor si trovava ora sopra di lui e lottava per tenerlo al suolo, pronto a combattere a mani nude. Era diventato un incontro corpo a corpo. Andronico gli prese la gola e Thor si sorprese per la sua forza: sentiva che l’aria gradualmente gli veniva a mancare mentre suo padre lo strozzava.
Thor portò la mano alla cintura alla disperata ricerca del suo pugnale. Il pugnale reale, quello che re MacGil gli aveva dato prima di morire. Gli mancava l’aria sempre di più e sapeva che se non avesse agito in fretta sarebbe morto.
Lo trovò, lo sollevò in aria e lo affondò con entrambe le mani nel petto di Andronico.
Andronico inarcò il busto di scatto, cercando di respirare, gli occhi velati in uno sguardo di morte, ma nonostante tutto continuò a stringere il collo di suo figlio.
Thor, ormai senza fiato, stava iniziando a vedere le stelle e cominciava a perdere le forze.
Alla fine, lentamente, Andronico lasciò la presa e le braccia gli caddero di lato. Gli occhi ruotarono e smise di muoversi.
Rimase a terra immobile. Morto.
Thor fece un profondo respirò togliendosi la mano floscia di suo padre dalla gola, sollevandosi e tossendo.
Tutto il suo corpo era scosso. Aveva appena ucciso suo padre. Non avrebbe mai pensato che fosse possibile.
Si guardò attorno e vide che tutti i guerrieri, entrambi gli eserciti, lo stavano fissando scioccati. Sentì un tremendo calore scorrergli nel corpo, come se un profondo cambiamento avesse appena avuto luogo dentro di sé, come se avesse appena spazzato via una qualche parte malvagia di se stesso. Si sentiva cambiato, più leggero.
Udì un forte rumore provenire dal cielo, come un tuono, e sollevando lo sguardo vide una piccola nuvola nera apparire al di sopra del cadavere di Andronico, come un gruppo di piccole ombre nere, demoni che si calavano a terra. Rotearono attorno a suo padre avvolgendolo, ululando e raccogliendo il suo corpo, sollevandolo in aria, in alto fino a farlo scomparire tra le nuvole. Thor guardò scioccato e si chiese dove diavolo stessero trascinando la sua anima.
Sollevò lo sguardo e vide l’esercito dell’Impero di fronte a sé, decine di migliaia di uomini con la vendetta negli occhi. Il grande Andronico era morto. Ma i suoi uomini erano ancora lì. Thor e gli uomini dell’Anello erano ancora in minoranza, uno contro cento. Avevano vinto una battaglia, ma stavano per perdere la guerra.
Erec, Kendrick, Srog e Bronson si avvicinarono a Thor, sguainarono le spade, pronti ad affrontare l’Impero insieme a lui. I corni suonarono lungo le linee nemiche e Thor si preparò ad affrontare l’ultima battaglia. Sapeva che non potevano vincerla. Ma almeno sarebbero tutti morti insieme, in un grande scontro di gloria.
CAPITOLO SETTE
Reece marciava accanto a Selese, Illepra, Elden, Indra, O’Connor, Conven, Krog e Serna, tutti e nove diretti verso est ormai da ore, fin da quando erano emersi dal Canyon. Reece sapeva che da qualche parte all’orizzonte si trovava la sua gente, viva o morta, ed era determinato a trovarli.
Era rimasto scioccato attraversando un paesaggio di distruzione, campi sterminati di cadaveri, pieni di uccelli spazzini, tutto bruciato dal fuoco dei draghi. Migliaia di cadaveri dell’Impero erano disseminati all’orizzonte, alcuni ancora fumanti. Il fumo si levava dai loro corpi e riempiva l’aria insieme all’insopportabile puzzo di carne bruciata che caratterizzava ormai una terra distrutta. Chiunque non fosse stato ucciso dalla fiammata del drago era stato macellato in battaglia contro i soldati dell’Impero, dei MacGil e dei McCloud. I cadaveri di ogni fazione giacevano a terra, intere città erano state distrutte e c’erano cumuli di macerie ovunque. Reece scosse la testa: quella terra che un tempo era stata così florida ora era stata devastata dalla guerra.
Da quando erano risaliti dal Canyon Reece e gli altri erano determinati a raggiungere casa, a tornare nella parte di Anello appartenente ai MacGil. Non riuscendo a trovare cavalli, avevano marciato fino alla parte dei McCloud, risalendo l’Altopiano e scendendo dall’altro versante. Ora, finalmente, si trovavano in territorio MacGil, e passavano tra nient’altro che rovine e devastazione. Dall’aspetto della terra, i draghi avevano dato una mano a distruggere le truppe dell’Impero e per questo Reece era loro grato. Ma non aveva ancora idea di quale fosse lo stato nel quale avrebbe ritrovato la sua gente. Erano morti tutti nell’Anello? Fino a quel punto pareva di sì. Reece moriva dalla voglia di scoprire se c’era qualcuno che stesse bene.
Ogni volta che raggiungevano un campo di battaglia pieno di morti e feriti – quelli che non erano stati uccisi dalle fiamme del drago – Selese ed Illepra andavano di cadavere in cadavere e li rigiravano controllando la loro identità. Non erano guidate solo dalla loro professione, bensì da un altro scopo: Illepra voleva trovare il fratello di Reece. Godfrey. E anche Reece aveva il medesimo obiettivo.
“Non è qui,” disse Illepra un’altra volta, rialzandosi dopo aver rigirato l’ultimo cadavere di quel campo, con il volto segnato dalla delusione.
Reece comprendeva quanto Godfrey contasse per Illepra e ne era toccato. Anche lui sperava che stesse bene e si trovasse tra i vivi, ma vedendo tutte quelle migliaia di cadaveri aveva il terribile presentimento che non fosse così.
Continuarono a marciare percorrendo campi sterminati, serie di colline, e così facendo scorsero un altro campo di battaglia all’orizzonte, disseminato di migliaia di cadaveri. Si diressero lì.
Mentre camminavano Illepra piangeva in silenzio. Selese le posò una mano sul polso.
“È vivo,” la rassicurò. “Non preoccuparti.”
Reece fece un passo avanti e le mise una mano rassicurante sulla spalla, provando compassione per lei.
“Se c’è una cosa che so di mio fratello,” le disse, “è che è un sopravvissuto. Trova sempre una via di scampo. Anche dalla morte. Te lo prometto. La cosa più probabile è che Godfrey sia già in una taverna da qualche parte, a ubriacarsi.”
Illepra rise tra le lacrime e se le asciugò.
“Lo spero,” disse. “Per la prima volta lo spero davvero.”
Continuarono la loro triste marcia attraversando in silenzio quella terra desolata, ognuno perso nei suoi pensieri. Le immagini del Canyon passavano di tanto in tanto a sprazzi nella mente di Reece: non riusciva a sbarazzarsene. Ripensava alla situazione disperata nella quale si erano trovati e provava immensa gratitudine per Selese: se non fosse giunta al momento giusto si sarebbero trovati ancora là sotto, sicuramente tutti morti.
Reece prese la mano di Selese e le sorrise mentre continuavano a camminare. Era commosso dal suo amore e dalla devozione che provava per lui, dalla sua determinazione nell’attraversare tutta al campagna solo per salvarlo. Provava un’incommensurabile ondata d’amore per lei e non vedeva l’ora di poter avere un momento da solo con lei