– Mattia Pascal. Marianna Dondi, vedova Pescatore, mia cugina. Romilda, mia nipote. Volle che, per rassettarmi dalla corsa, bevessi qualcosa.
– Romilda, se non ti dispiace…
Come se fosse a casa sua.
Romilda si alzò, guardando la madre, per consigliarsi con gli occhi di lei, e poco dopo, non ostanti le mie proteste, tornò con un piccolo vassojo su cui era un bicchiere e una bottiglia di vermouth. Subito, a quella vista, la madre si alzò indispettita, dicendo alla figlia:
– Ma no! ma no! Da’ qua!
Le tolse il vassojo dalle mani e uscì per rientrare poco dopo con un altro vassojo di lacca, nuovo fiammante, che reggeva una magnifica rosoliera: un elefante inargentato, con una botte di vetro sul groppone, e tanti bicchierini appesi tutt’intorno, che tintinnivano.
Avrei preferito il vermouth. Bevvi il rosolio. Ne bevvero anche il Malagna e la madre. Romilda, no.
Mi trattenni poco, quella prima volta, per avere una scusa a tornare: dissi che mi premeva di rassicurar la mamma intorno a quella cambiale, e che sarei venuto di lì a qualche giorno a goder con più agio della compagnia delle signore.
Non mi parve, dall’aria con cui mi salutò, che Marianna Dondi, vedova Pescatore, accogliesse con molto piacere l’annunzio d’una mia seconda visita: mi porse appena la mano: gelida mano, secca, nodosa, gialliccia; e abbassò gli occhi e strinse le labbra. Mi compensò la figlia con un simpatico sorriso che prometteva cordiale accoglienza, e con uno sguardo, dolce e mesto a un tempo, di quegli occhi che mi fecero fin dal primo vederla una così forte impressione: occhi d’uno strano color verde, cupi, intensi, ombreggiati da lunghissime ciglia; occhi notturni, tra due bande di capelli neri come l’ebano, ondulati, che le scendevano su la fronte e su le tempie, quasi a far meglio risaltare la viva bianchezza de la pelle.
La casa era modesta; ma già tra i vecchi mobili si notavano parecchi nuovi venuti, pretensiosi e goffi nell’ostentazione della loro novità troppo appariscente: due grandi lumi di majolica, per esempio, ancora intatti, dai globi di vetro smerigliato, di strana foggia, su un’umilissima mensola dal piano di marmo ingiallito, che reggeva uno specchio tetro in una cornice tonda, qua e là scrostata, la quale pareva si aprisse nella stanza come uno sbadiglio d’affamato. C’era poi, davanti al divanuccio sgangherato, un tavolinetto con le quattro zampe dorate e il piano di porcellana dipinto di vivacissimi colori; poi uno stipetto a muro, di lacca giapponese, ecc., ecc., e su questi oggetti nuovi gli occhi di Malagna si fermavano con evidente compiacenza, come già su la rosoliera recata in trionfo dalla cugina vedova Pescatore.
Le pareti della stanza eran quasi tutte tappezzate di vecchie e non brutte stampe, di cui il Malagna volle farmi ammirare qualcuna, dicendomi ch’erano opera di Francesco Antonio Pescatore, suo cugino, valentissimo incisore (morto pazzo, a Torino, – aggiunse piano), del quale volle anche mostrarmi il ritratto.
– Eseguito con le proprie mani, da sé, davanti allo specchio. Ora io, guardando Romilda e poi la madre, avevo poc’anzi pensato: «Somiglierà al padre!». Adesso, di fronte al ritratto di questo, non sapevo più che pensare.
Non voglio arrischiare supposizioni oltraggiose. Stimo, è vero, Marianna Dondi, vedova Pescatore, capace di tutto; ma come immaginare un uomo, e per giunta bello, capace d’essersi innamorato di lei? Tranne che non fosse stato un pazzo più pazzo del marito.
Riferii a Mino le impressioni di quella prima visita. Gli parlai di Romilda con tal calore d’ammirazione, ch’egli subito se ne accese, felicissimo che anche a me fosse tanto piaciuta e d’aver la mia approvazione.
Io allora gli domandai che intenzioni avesse: la madre, sì, aveva tutta l’aria d’essere una strega; ma la figliuola, ci avrei giurato, era onesta. Nessun dubbio su le mire infami del Malagna; bisognava dunque, a ogni costo, al più presto, salvare la ragazza.
– E come? – mi domandò Pomino, che pendeva affascinato dalle mie labbra.
– Come? Vedremo. Bisognerà prima di tutto accertarsi di tante cose; andare in fondo; studiar bene. Capirai, non si può mica prendere una risoluzione così su due piedi. Lascia fare a me: t’ajuterò. Codesta avventura mi piace.
– Eh… ma… – obbiettò allora Pomino, timidamente, cominciando a sentirsi sulle spine nel vedermi così infatuato. – Tu diresti forse… sposarla?
– Non dico nulla, io, per adesso. Hai paura, forse?
– No, perché?
– Perché ti vedo correre troppo. Piano piano, e rifletti. Se veniamo a conoscere ch’ella è davvero come dovrebbe essere: buona, saggia, virtuosa (bella è, non c’è dubbio, e ti piace, non è vero?) – oh! poniamo ora che veramente ella sia esposta, per la nequizia della madre e di quell’altra canaglia, a un pericolo gravissimo, a uno scempio, a un mercato infame: proveresti ritegno innanzi a un atto meritorio, a un’opera santa, di salvazione?
– Io no… no! – fece Pomino. – Ma… mio padre?
– S’opporrebbe? Per qual ragione? Per la dote, è vero? Non per altro! Perché ella, sai? è figlia d’un artista, d’un valentissimo incisore, morto… sì, morto bene, insomma, a Torino… Ma tuo padre è ricco, e non ha che te solo: ti può dunque contentare, senza badare alla dote! Che se poi, con le buone, non riesci a vincerlo, niente paura: un bel volo dal nido, e s’aggiusta ogni cosa. Pomino, hai il cuore di stoppa?
Pomino rise, e io allora gli dimostrai quattro e quattr’otto che egli era nato marito, come si nasce poeta. Gli descrissi a vivi colori, seducentissimi, la felicità della vita coniugale con la sua Romilda;
l’affetto, le cure, la gratitudine ch’ella avrebbe avuto per lui, suo salvatore. E, per concludere:
– Tu ora, – gli dissi, – devi trovare il modo e la maniera di farti notare da lei e di parlarle o di scriverle. Vedi, in questo momento, forse, una tua lettera potrebbe essere per lei, assediata da quel ragno, un’àncora di salvezza. Io intanto frequenterò la casa;
starò a vedere; cercherò di cogliere l’occasione di presentarti. Siamo intesi?
– Intesi.
Perché mostravo tanta smania di maritar Romilda? – Per niente. Ripeto: per il gusto di stordire Pomino. Parlavo e parlavo, e tutte le difficoltà sparivano. Ero impetuoso, e prendevo tutto alla leggera. Forse per questo, allora, le donne mi amavano, non ostante quel mio occhio un po’ sbalestrato e il mio corpo da pezzo da catasta. Questa volta, però, – debbo dirlo – la mia foga proveniva anche dal desiderio di sfondare la trista ragna ordita da quel laido vecchio, e farlo restare con un palmo di naso; dal pensiero della povera Oliva; e anche – perché no? – dalla speranza di fare un bene a quella ragazza che veramente mi aveva fatto una grande impressione.
Che colpa ho io se Pomino eseguì con troppa timidezza le mie prescrizioni? che colpa ho io se Romilda, invece d’innamorarsi di Pomino, s’innamorò di me, che pur le parlavo sempre di lui? che colpa, infine, se la perfidia di Marianna Dondi, vedova Pescatore, giunse fino a farmi credere ch’io con la mia arte, in poco tempo, fossi riuscito a vincere la diffidenza di lei e a fare anche un miracolo: quello di farla ridere più d’una volta, con le mie uscite balzane? Le vidi a poco a poco ceder le armi; mi vidi accolto bene; pensai che, con un giovanotto lì per casa, ricco (io mi credevo ancora ricco) e che dava non dubbii segni di essere innamorato della figlia, ella avesse finalmente smesso la sua iniqua idea, se pure le fosse mai passata per il capo. Ecco: ero giunto finalmente a dubitarne!
Avrei dovuto, è vero, badare al fatto che non m’era più avvenuto d’incontrarmi col Malagna in casa di lei, e che poteva non esser senza ragione ch’ella mi ricevesse soltanto di mattina. Ma chi ci badava? Era, del resto, naturale, poiché io ogni volta, per aver maggior libertà, proponevo gite in campagna, che si fanno più volentieri di mattina. Mi ero poi innamorato anch’io di Romilda, pur seguitando sempre a parlarle dell’amore di Pomino; innamorato come un matto di quegli occhi belli, di quel nasino, di quella bocca, di tutto, finanche d’un piccolo porro ch’ella aveva sulla nuca, ma finanche d’una cicatrice