più d’una mi parve equivoca; la vista d’un certo ometto biondo biondo, dagli occhi grossi, ceruli, venati di sangue e contornati da lunghe ciglia quasi bianche, non m’affidò molto, in prima; era in marsina anche lui, ma si vedeva che non era solito di portarla: volli vederlo alla prova: puntò forte: perdette; non si scompose: ripuntò anche forte, al colpo seguente: via! non sarebbe andato appresso ai miei quattrinucci. Benché, di prima colta, avessi avuto quella scottatura, mi vergognai del mio sospetto. C’era tanta gente là che buttava a manate oro e argento, come fossero rena, senza alcun timore, e dovevo temere io per la mia miseriola?
Notai, fra gli altri, un giovinetto, pallido come di cera, con un grosso monocolo all’occhio sinistro il quale affettava un’aria di sonnolenta indifferenza; sedeva scompostamente; tirava fuori dalla tasca dei calzoni i suoi luigi; li posava a casaccio su un numero qualunque e, senza guardare, pinzandosi i peli dei baffetti nascenti aspettava che la boule cadesse; domandava allora al suo vicino se aveva perduto.
Lo vidi perdere sempre.
Quel suo vicino era un signore magro, elegantissimo, su i quarant’anni; ma aveva il collo troppo lungo e gracile, ed era quasi senza mento, con un pajo d’occhietti neri, vivaci, e bei capelli corvini, abbondanti, rialzati sul capo. Godeva, evidentemente, nel risponder di sì al giovinetto. Egli, qualche volta, vinceva.
Mi posi accanto a un grosso signore, dalla carnagione così bruna, che le occhiaje e le palpebre gli apparivano come affumicate; aveva i capelli grigi, ferruginei, e il pizzo ancor quasi tutto nero e ricciuto; spirava forza e salute; eppure, come se la corsa della pallottola d’avorio gli promovesse l’asma, egli si metteva ogni volta ad arrangolare, forte, irresistibilmente. La gente si voltava a guardarlo; ma raramente egli se n’accorgeva: smetteva allora per un istante, si guardava attorno, con un sorriso nervoso, e tornava ad arrangolare, non potendo farne a meno, finché la boule non cadeva sul quadrante.
A poco a poco, guardando, la febbre del giuoco prese anche me. I primi colpi mi andarono male. Poi cominciai a sentirmi come in uno stato d’ebbrezza estrosa, curiosissima: agivo quasi automaticamente, per improvvise, incoscienti ispirazioni; puntavo, ogni volta, dopo gli altri, all’ultimo, là! e subito acquistavo la coscienza, la certezza che avrei vinto; e vincevo. Puntavo dapprima poco; poi, man mano, di più, di più, senza contare. Quella specie di lucida ebbrezza cresceva intanto in me, né s’intorbidava per qualche colpo fallito, perché mi pareva d’averlo quasi preveduto; anzi, qualche volta, dicevo tra me: «Ecco, questo lo perderò; debbo perderlo». Ero come elettrizzato. A un certo punto, ebbi l’ispirazione di arrischiar tutto, là e addio; e vinsi. Gli orecchi mi ronzavano; ero tutto in sudore, e gelato. Mi parve che uno dei croupiers, come sorpreso di quella mia tenace fortuna, mi osservasse. Nell’esagitazione in cui mi trovavo, sentii nello sguardo di quell’uomo come una sfida, e arrischiai tutto di nuovo, quel che avevo di mio e quel che avevo vinto, senza pensarci due volte: la mano mi andò su lo stesso numero di prima, il 35; fui per ritrarla; ma no, lì, lì di nuovo, come se qualcuno me l’avesse comandato.
Chiusi gli occhi, dovevo essere pallidissimo. Si fece un gran silenzio, e mi parve che si facesse per me solo, come se tutti fossero sospesi nell’ansia mia terribile. La boule girò, girò un’eternità, con una lentezza che esasperava di punto in punto l’insostenibile tortura. Alfine cadde.
M’aspettavo che il croupier, con la solita voce (mi parve lontanissima), dovesse annunziare:
«Trentecinq, noir, impair et passe!»
Presi il denaro e dovetti allontanarmi, come un ubriaco. Caddi a sedere sul divano, sfinito; appoggiai il capo alla spalliera, per un bisogno improvviso, irresistibile, di dormire, di ristorarmi con un po’ di sonno. E già quasi vi cedevo, quando mi sentii addosso un peso, un peso materiale, che subito mi fece riscuotere. Quanto avevo vinto? Aprii gli occhi, ma dovetti richiuderli immediatamente: mi girava la testa. Il caldo, là dentro, era soffocante. Come! Era già sera? Avevo intraveduto i lumi accesi. E quanto tempo avevo dunque giocato? Mi alzai pian piano; uscii.
Fuori, nell’atrio, era ancora giorno. La freschezza dell’aria mi rinfrancò.
Parecchia gente passeggiava lì: alcuni meditabondi, solitarii; altri, a due, a tre, chiacchierando e fumando.
Io osservavo tutti. Nuovo del luogo, ancora impacciato, avrei voluto parere anch’io almeno un poco come di casa: e studiavo quelli che mi parevano più disinvolti; se non che, quando meno me l’aspettavo, qualcuno di questi, ecco, impallidiva, fissava gli occhi, ammutoliva, poi buttava via la sigaretta, e, tra le risa dei compagni, scappava via; rientrava nella sala da giuoco. Perché ridevano i compagni? Sorridevo anch’io, istintivamente, guardando come uno scemo.
– A toi, mon chéri! – sentii dirmi, piano, da una voce femminile, un po’ rauca.
Mi voltai, e vidi una di quelle donne che già sedevano con me attorno al tavoliere, porgermi, sorridendo, una rosa. Un’altra ne teneva per sé: le aveva comperate or ora al banco di fiori, là, nel vestibolo.
Avevo dunque l’aria così goffa e da allocco?
M’assalì una stizza violenta; rifiutai, senza ringraziare, e feci per scostarmi da lei; ma ella mi prese, ridendo, per un braccio, e – affettando con me, innanzi a gli altri, un tratto confidenziale – mi parlò piano, affrettatamente. Mi parve di comprendere che mi proponesse di giocare con lei, avendo assistito poc’anzi ai miei colpi fortunati: ella, secondo le mie indicazioni, avrebbe puntato per me e per lei.
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