Mentre la vecchia continuava a parlare di argomenti più generici, ripensavo a quella serata sulla spiaggia; alla nostra emozione di allora, che adesso si rinnovava negli occhi di Angela; e alla inspiegabile astinenza di lei, in quel giorno di San Valentino, dal comprare un qualunque oggetto ricordo, per quanti ne continuasse a guardare e ad esaminare con attenzione.
“ … Quelle sono spille portafortuna. Sono quelle con l’immagine del castello e della madonna, non è vero?" La vecchia parlando continuava a fissare nel vuoto; ma erano proprio quelle le spillette che stavamo esaminando.
"Dicono che tengano lontane le sventure. Ma questa è superstizione, date retta a me: è l’amore che protegge da ogni male.”
Le parole della vecchia, aumentando in me il dubbio - se non la convinzione - che avesse dei poteri misteriosi, mi infastidivano e mi turbavano, infondendomi un pressante desiderio di uscire al più presto da quel negozio; ma mi diedero anche una specie di illuminazione sui pensieri di Angela. Quel giorno, a differenza del solito, voleva che fossi io a comprarle qualcosa. Anche una stupidaggine. Magari proprio quella spilletta portafortuna, a ricordo di un bel San Valentino trascorso insieme e al contempo di quella promessa scambiata sulla spiaggia; e magari, così per scaramanzia, perché proteggesse il nostro amore per tutta la vita, come ci piaceva pensare e sperare, tenendo lontana da noi ogni sventura.
"Sono molto belle", dissi. "Ne prendiamo due." Porsi alla vecchia il denaro dovuto ed ella, sempre con lo sguardo nel vuoto, mi ringraziò sorridendo. La lasciammo seduta al suo posto, tornata immobile e silenziosa come una statua di sale ripiombata nel suo incantesimo.
Usciti in strada indossammo subito le spillette, una per ciascuno. Di certo appuntarle ai nostri vestiti ebbe degli effetti immediati e sorprendenti: il nostro bisogno l’uno dell'altra divenne talmente forte che proseguimmo avvinghiati stretti stretti e, in questo amoroso abbraccio, dimenticandoci del mondo intero. Non sentimmo più la fatica della salita, e in breve arrivammo alla nostra meta.
"Guarda, hanno messo l'acqua nel fossato! Non l'avevo mai visto così", mi disse Angela. Io non l'avevo proprio mai visto, né con né senza acqua; ma giudicai che sarebbe stato più appropriato popolarlo di coccodrilli, magari finti, anziché di paperelle e cigni.
Angela, con quella sua nuova vitalità inesauribile, mi trascinò verso l'entrata. Ormai intorno a noi si vedeva solo gente in maschera.
"L'affitto del costume è incluso nel biglietto", mi spiegò. "Neanche troppo caro, visto che comprende anche la cena e, ovviamente, la visita di buona parte del castello." Pagammo l'ingresso ad un gendarme col pennacchio, ma poi fummo costretti a separarci per la scelta del costume.
"Speriamo di riconoscerci, una volta mascherati", mi disse lei.
"Io porterò ben in vista la nostra spilletta", le risposi prima di lasciarla per seguire una guardia svizzera disarmata che mi accompagnò, insieme ad altri, nella sala vestizione dei cavalieri.
Non c'era molta varietà di scelta nel travestimento: in buono stato erano rimasti solo costumi da Zorro, a decine, e i pochi altri erano chiaramente in condizioni molto peggiori, o di taglie particolari, o troppo scomodi o stravaganti. Volentieri e senza esitazione scelsi Zorro, ottenendolo in cambio di un mio documento di identità. Mi cambiai, richiusi a chiave i miei abiti civili in uno degli appositi armadietti, mi appuntai la spilla sul petto e uscii nella sala delle feste.
Dov'era Angela? O forse era più corretto chiedersi: quale era?
C'erano svariate persone, alcune in coppia e altre in gruppi più numerosi, tutte mascherate; ciononostante l'enorme sala dava quasi l'impressione di essere vuota. Forse perché era priva di mobilio, se non per qualche tavolo apparecchiato a buffet e qualche sedia, chiaramente non in stile. Una buona parte del pavimento e delle pareti, spoglie dei quadri, era stata ricoperta da una specie di panno protettivo, sicché la bellezza originaria di quella sala maestosa rimaneva nella sua architettura, nel soffitto decorato e nelle ampie finestre con vista panoramica.
Mi tolsi subito la mascherina dagli occhi, per vedere e farmi vedere meglio. La sala andava riempiendosi ad un buon ritmo, alimentata dai due spogliatoi. Mi diressi verso quello delle dame, scrutando con attenzione ogni volto femminile spaiato che incontravo, nella speranza di riconoscerci Angela, di cui cominciavo già a sentire la mancanza.
Come davanti alla toilette delle donne all'aeroporto, un piccolo gruppo di uomini, tutti con la stessa ansia ma simulando indifferenza e ignorandosi reciprocamente, aspettava davanti a quella porta. Attesi anch'io nervosamente per dieci interminabili minuti, prima di ritornare in me ricordandomi dei normali tempi di preparazione di Angela. Allora, rassegnato, decisi di ingannare l'attesa con qualcosa da mangiare.
Ascoltavo con interesse la musica pseudomedioevale di sottofondo, ed osservavo la gente che continuava ad affluire, constatando che la nostra spilletta era stata adottata come portafortuna anche da altri, soprattutto Zorri. Nel frattempo proseguivano i preparativi per l'organizzazione della festa, che ufficialmente avrebbe preso avvio al tramonto: alcuni inservienti in costume accendevano le lampade ad olio, mentre altri preparavano la pedana e gli strumenti per un'orchestrina che più tardi avrebbe accompagnato balli lenti con musiche romantiche.
"Ero sicura di trovarti qui." La mia Angela mi sorprese alle spalle in veste di cappuccetto rosso. Non aveva avuto bisogno di trucco o ritocchi per sfoggiare un sorriso da bambina. "Vieni, facciamo un giro per il castello", disse requisendomi una pizzetta e prendendomi per mano.
Ci dirigemmo d'istinto verso il sole che, già basso sull'orizzonte, appariva di colore e dimensioni tali da sembrare anch'egli mascherato. Uscimmo perciò da una porta finestra su una terrazza panoramica; ma rientrammo quasi subito, per via delle fastidiose folate d'aria e soprattutto di un gruppo di ragazzi e ragazze che col loro comportamento - fatto di voci sguaiate, spintoni, battute e gesti volgari fino all'oscenità - toglievano ogni poesia a quello spettacolo.
"Vieni", mi disse, "ti porto io in un angolino romantico … se mi ricordo come arrivarci."
La seguii. Su per una specie di ampia scala a chiocciola che doveva portare al piano di sopra, Angela provò invano ad aprire una bassa porticina verde dall'aspetto robusto.
"Signorina, non si può entrare là dentro: è privato", le disse con fermezza un gendarme baffuto accorso al rumore della porta scossa invano con energia.
"Ah, mi scusi", rispose Angela con aria innocente. Ma doveva avere in mente qualcos'altro perché, con passo sempre molto deciso, mi riportò subito nella grande sala. Nella foga andò a infrangersi contro un centurione romano alto almeno una spanna più di me, ma fortunatamente con l'armatura di plastica.
"Angela!"
"Franco!"
Dagli istanti di imbarazzato silenzio capii che era proprio lui, il suo ex. Ma Angela si riprese egregiamente, e in modo tale da troncare drasticamente sul nascere, in lui, qualunque possibilità di nostalgia o rammarico per i tempi passati.
"Ciao, ti presento mio marito". Ci scambiammo una stretta di mano e poi tornai a stringere quella di Angela, come due teneri fidanzatini.
"Anche tu qui a goderti la festa?", continuò Angela.
"Veramente non me la sto godendo molto. Faccio parte dell'organizzazione, e ti assicuro che è ed è stata una faticaccia. Sai, un po' me la sono cercata: perché è stata soprattutto una idea mia. Un chiodo fisso da quando sono stato eletto consigliere comunale, l'anno scorso. E col fatto di essere amico del giovane conte le trattative tra i padroni del castello ed il comune sono toccate a me. Un duro lavoro di persuasione e di mediazione, perché il comune non voleva stanziare i fondi, e i conti erano diffidenti. A proposito, eccoli là: sono quei due signori con la parrucca ed il vestito settecentesco, originali dell'epoca, naturalmente."
"Si vede", commentò Angela, "sono bellissimi."
"Già, e anche la loro mentalità è all'incirca di quel periodo. Se non fosse stato per i loro figli non se