In mezzo a questa mutevole e gaia brigata, v'ebbero, come s'intenderà di leggieri, i più volenterosi, i più assidui. E furono costoro i veri, gli autentici Templarii, in numero di dieci, come i comandamenti di Dio. Ma uno solo fu il comandamento della loro fede: __far di notte giorno__; comandamento facile a tenersi in mente, senza mestieri di tavole, poichè ne bastava una sola, imbandita; più facile a seguirsi, senza bisogno che vigilasse un Mosè, poichè erano dieci, tutti legislatori e profeti ad un modo, e se per avventura non sapevano donde far scaturire l'acqua, con un colpo di verga, sapevano bensì da che botti si spillasse il buon vino.
Tra i nostri lettori (chi sa?) c'è forse taluno che avrà partecipato alla lega. A questo invalido senza pensione noi ci volgiamo, pregandolo a dire se non è verità pretta tutto quello che andiamo narrando. Mai sodalizio, confraternita, consorteria, furono più pronti ad accogliere, più larghi a licenziare. Per entrarvi, occorrevano quattro cose; gioventù e danari da spendere; onestà da tenere in serbo, e ingegno da mettere in comune. Per uscirne, bastava cominciare una sera a mettersi in letto di buon'ora, e alzarsi la mattina per tempo. Così facendo, si era certi di non veder più Templarii, e volendo si poteva anco dimenticare che fossero mai esistiti.
Il Templario, per solito, si alzava da letto alle quattro del pomeriggio, e gli amici e i conoscenti lo vedevano verso le cinque, allorquando, vestito di tutto punto, egli andava a goder la frescura mattutina sulla piazza della Posta. Sorseggiato il suo caffè nero (leggete vermutte) dal Moder, faceva colazione all'ora in cui gli altri volevano pranzare; leggeva i giornali del mattino (altri direbbe della sera), e poscia per ingannare il tempo, andava a sedersi nel suo scanno a teatro, dove ascoltava la musica, o la recita di qualche nuovo dramma, secondo i casi, facendo tutte quell'altre cose che fa, in somigliante postura, ogni semplice mortale. Quasi sarebbe inutile il dire che non era sempre a teatro, e che sapeva alternare questo passatempo colle visite, e coll'attendere a' suoi negozi particolari, molti o pochi, sempre secondo i casi, rilevanti o di niun conto che fossero.
Così giungeva la mezzanotte, ora in cui si metteva a desco e pranzava coi soliti amici e con tutti quegli altri avventizii che vi abbiamo già detto. Questo pranzo, che i semplici mortali chiamerebbero cena, riusciva un vero simposio, in cui regnava la più sciolta allegrezza, la più cara festività di modi, la più bizzarra varietà di discorsi; cose tutte che tiravano in lungo il convito, e facevano schierare in bell'ordine una legione di bottiglie vuote nel mezzo della tavola.
Finalmente, verso le tre del mattino, cedendo alla muta eloquenza del tavoleggiante, che pisolava in un angolo, i compari levavano le tende, per andarsene a passeggio, continuando i ragionamenti incominciati a mensa, fino all'ora in cui gli asinelli dei lattai, le ceste delle cavolaie e delle, fruttivendole, giungevano dal Bisagno, a mutare l'aspetto della piazza di San Domenico. Qui veniva in taglio una visita agli ortaggi, e, secondo la disposizione degli animi, si mercanteggiava mezz'ora intorno ad un canestro di frutta, o ad un mazzo di radici, tanto per dar molestia alle erbivendole e farsi dire che lor signori avevano tempo da perdere.
Ciò fatto, e comperata, per farla finita, qualche libbra di patate, o una dozzina di melarance, per accoccarsele a vicenda più in là, si davano la buona notte e andavano a letto per tempissimo, come solevano dire a chi li riprendeva di andarci troppo tardi.
Questa maniera di vivere parrà sregolata a taluni, e strana, per lo meno, all'universale; non già a noi, i quali la reputiamo soltanto regolata diversamente, non altrimenti strana che in apparenza, a cagione di un mutamento d'orario. E di quel loro orario particolare molto si compiacevano i nostri Templarii, poichè le ore che passavano fuori di casa erano quelle appunto che consentivano loro di trovarsi in fiorita compagnia a teatro, con gente di loro elezione a tavola, e d'essere i veri padroni della città, quando uscivano a passeggio, senza aver molestia da ruote di carri, da scuriade di cocchieri, da gomiti di screanzati, nè nausea dalla vista continua di asini calzati, o di furfanti matricolati.
Nè di ciò solo si lodavano i Templarii, ma ancora, del poco spendere. Uno tra essi, ai predicozzi del babbo, che era venuto dal borgo natale per pagargli i debiti, poteva dir di rimando:
– Di che vi lagnate, padre mio? Domandatene a quanti mi conoscono, e tutti vi diranno che vivo con una lira al giorno.
– Ah sì, con una lira? E il resto va tutto in libri, lezioni e limosine, non è vero?
– No, padre mio; non sono tanto ricco da far limosine; lezioni particolari non ne prendo, e i libri non li pago.
– Sentiamo dunque dove va il tuo denaro.
– Ecco, cinquanta centesimi tra assenzio e caffè… Voi vedete che non è molto! poi, trenta centesimi di sigari, venti di giornali; tutto sommato, è una lira.
– E il pranzo, manigoldo? E la cena, e le male spese?
– Ah! tutto ciò, padre mio, entra nel conto della notte. Io vi dicevo quello che spendo al giorno, e certo non troverete che sia molto. —
Buona pasta di giovani, quei Templarii! Si riscaldavano per una questione di politica, d'arte o di scienza, come tanti e tant'altri per far roba e quattrini; si ficcavano animosi in ogni ginepreto, col medesimo ardore che altri metterebbe a cavarsene. Non c'era forma, non delicatezza d'intelligenza, a cui fossero o volessero rimanersi stranieri; e tutto ciò senza sussiego, senza pedanteria, senza sforzo. In una città mercatante e affaccendata come la loro, essi erano gli ospiti cortesi, i cerimonieri, i ciceroni volenterosi, di quanti giungessero, artisti, letterati, giornalisti, scienziati d'altre parti d'Italia, anzi d'Europa a dirittura, per visitare la regina del Tirreno. Parecchi di questi signori confessarono ai Templarii, dinanzi a un piatto di dàtteri di mare, che avevano molto sbadigliato il mattino, in compagnia di certi incravattati e stecchiti arcifanfani. Qualche gran diplomatico, ristucco delle visite ufficiali e dei pranzi di gala, respirò liberamente in mezzo ai notturni cavalieri, e dichiarò ad alta voce, tra due sorsate di Barbèra (oh, indimenticabile Sir James Hudson!) che gli Italiani valevano assai più dei loro rispettivi governi.
E insieme con questi giramondi, quante lezioni improvvisate di storia, alle tre dopo la mezzanotte, sulla piazza di Sarzano, o sotto la torre del palazzo Ducale! Quanti aneddoti archeologici, quante cronache gentilizie, sul ponte di Carignano, sugli scalini della Malapaga, e giù per lo Stradone di Sant'Agostino! quante cicalate intorno all'architettura bisantina, araba e lombarda, sulla gradinata di San Lorenzo, e in groppa ai leoni del Rubatto!
Nè mancavano le pazzie, che anzi erano frequenti, e non sempre argute. Lo seppero i cartelloni tondi del teatro Carlo Felice, che spesso andarono a far bella mostra di sè, e ad annunziar la serata della Bendazzi, o della Pochini, in luogo della solita __Indulgenza plenaria__, ai divoti di Sant'Ambrogio. Lo seppero i carri della spazzatura, che più volte ruzzolarono, con grande frastuono, giù per la via Carlo Felice, portando in trionfo qualche Pollione, o qualche conte di Luna, costretto la sera di poi ad omettere la sua cavatina. Lo seppe troppe volte il portone della casa al numero 5 in via Carlo Felice, fatto a due battenti, i cui picchiotti, in forma di S, e girevoli, si incrocicchiavano con bel garbo l'uno sull'altro, per modo che le fantesche mattiniere non potevano più uscire di casa, se qualche pietoso viandante non si faceva a rimuover l'ostacolo.
Ne tralasciamo, per amore di brevità, molte e molte altre, che ai Templarii parevano belle invenzioni,