La guerra del Vespro Siciliano vol. 2. Amari Michele. Читать онлайн. Newlib. NEWLIB.NET

Автор: Amari Michele
Издательство: Public Domain
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Жанр произведения: Зарубежная классика
Год издания: 0
isbn: http://www.gutenberg.org/ebooks/47114
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meglio che trecento giovani di nobil sangue; creò conti; die’ feudi ed ufici: fatti Ruggier Loria grand’ammiraglio; Corrado Lancia gran cancelliere, in iscambio del Procida; capitani dell’esercito Blasco Magona, frate Arnaldo de Poncio disertor di Calabria, Guglielmo di Casigliano e altri provati combattenti. Si passò ai giochi pubblici, adatti al secolo e al guerresco atteggiamento del paese, cavalcare, trarre al segno, giostrare; al palagio tennersi mense imbandite a chiunque, Così per due settimane si tripudiava145. In quel tempo, forse in quel primo brio, e con l’alacrità di chi avea gittato il dado a grande impresa, detta Federigo una poesia provenzale, indirizzata al suo fedel Ugone degli Empuri, che gli rispose nello stesso metro e rima: e i versi d’entrambi attestano con qual franco animo il giovin re andava incontro alla guerra; come fidava nella nazion siciliana; sperava negli aiuti degli avventurieri spagnuoli; e sospettava del re d’Aragona, dubbioso tra gl’interessi di famiglia che ’l tiravano a favorir Federigo, e le profferte e minacce de’ nemici che spingeanlo dal lato opposto. Federigo sfidava quasi gli uomini e la fortuna a trarlo giù dal trono, se potessero: Ugone par che credesse più nel coraggio, che nella capacità e nella mente del nuovo principe: ambo i componimenti, se non han pregio di poesia, servono alla istoria, perchè fedelmente dipingono l’animo di Federigo e le sue condizioni politiche146. S’innovò insieme la costituzione dello stato. Avean Pietro e Giacomo ristorato le buone leggi normanne, riformato abusi, temperato gravezze; ma Federigo, consigliato o sforzato da’ tempi, passò a sviluppare, ben oltre il confine normanno e svevo, i dritti politici della nazione, in guisa che, se non mutaronsi i nomi, si vantaggiò tanto negli ordini pubblici, da restar alla Sicilia premio non indegno del vespro. Nel proemio delle costituzioni, promettea Federigo, e non a ludibrio, di osservar la giustizia e liberalità comandate dall’Onnipotente ai re della terra. La colpa di Giacomo, gl’incerti passi ch’ei medesimo, Federigo, già diede con Bonifazio dopo essersi indettato co’ Siciliani, or lo strinsero a sacramentare su la sua fede e ’l terribil giudizio di Dio, che manterrebbe a tutto potere il presente stato della Sicilia; nè cupidigia di nuovo acquisto, nè altra ragione lo spunterebbe dalla difesa; nè farebbesi a domandar dalla romana sede scioglimento da cotali promesse, com’era pessima usanza di quell’età. A guarentigia di ciò, si strinse Federigo d’un altro vincol più duro: che nè con la Chiesa romana, nè con altri potentati, farebbe unquemai lega, pace, guerra, se nol consentisse la nazione. Slmilmente partì co’ rappresentanti della nazione il poter legislativo. Stanziò, che s’adunasse ciascun anno il dì d’Ognissanti generale parlamento de’ conti, baroni, e sindichi de’ comuni (nè qui si fa menzione di prelati), che insieme col re provvedessero alla cosa pubblica; e il re fosse tenuto, come ogni altro, dalle leggi decretate col parlamento. Data a questo la censura su i magistrati e uficiali pubblici; e che i sindichi accusassero, tutto il parlamento punisse. Tutto il parlamento, non esclusi i sindichi delle città, ebbe la scelta annuale di quella che noi diremmo alta corte de’ pari, cioè di dodici nobili siciliani, che giudicassero inappellabilmente, indipendenti da ogni altro magistrato, le cause criminali de’ baroni; importante privilegio de’ tempi normanni, ristorato or che montava l’autorità de’ nobili e del parlamento.

      Confermò Federigo largamente le franchezze e privilegi degli Svevi e de’ suoi predecessori aragonesi, con ciò che nei casi dubbi s’interpretassero a favor dei soggetti. Nè terminò quest’ordine di leggi politiche, senza riforma in quelle sopra i delitti di maestà, ch’a gran pezza dipendono dalle politiche, e secondo l’indole del reggimento, or portan mite freno, or cieca ed efferata vendetta. Ondechè fu tolta a’ privati l’accusa di fellonia; riserbata al principe; lasciata ai rei la scelta del giudizio, come lor fosse a grado, secondo il dritto comune, le costituzioni dell’imperador Federigo, o le usanze larghissime di Barcellona. Volle il re in fine, che su i beni confiscati per alto tradimento, si rendesse alle mogli quanto lor dava la civil ragione, o ad esse e alle figliuole si porgessero sussidi per vivere. E intendendo nel principio del suo regno a cancellar ogni ombra di parte, vietò severamente le parole di fellone, guelfo, o ferracano, divenute ingiurie in questo tempo, in cui l’opinione pubblica e gl’intendimenti del governo non discostavansi un passo. Fu questo il primo libro delle costituzioni di Federigo147.

      Contengonsi nel secondo poche riforme di abusi su l’amministrazione della giustizia148, perchè Giacomo ci avea provveduto appieno; ma notevol è lo statuto, che fossero Siciliani, nobili, e ricchi, da scambiarsi in ogni anno, e stipendiati dall’erario, i quattro giustizieri, deputati a conoscer le cause criminali per tutta l’isola, fuorchè in Palermo e Messina, che avean privilegio di speciali magistrati149. Sonvi ancora statuti ch’or diremmo di polizia, tra i quali si legge l’ordinamento de’ sortieri, ossia guardia cittadina, ne’ comuni demaniali, e che fosse multato d’un agostal d’oro tutt’uomo trovato per le strade senza lume, appresso il terzo tocco della campana150. Si diè maggior passo in altra parte d’amministrazione civile, decretando l’unità di peso e misura, se non per tutto il reame, ben in ciascuna delle due regioni in cui divideasi la Sicilia, a levante e a ponente del Salso151; e che nella prima si adoprassero il tumolo di Siracusa e il quintal di Messina; nella seconda que’ di Palermo152. Quanto innanzi sentivano in economia pubblica i Siciliani di quel tempo, si scorge altresì dalla legge ch’obbligò le chiese a vendere o concedere ad enfiteusi, entro un anno, i poderi ad esse pervenuti per lasciti o quantunque altro modo; talchè la incuria delle mani morte, come si chiamano, non nocesse all’industria del paese. Gli ecclesiastici, su i beni di lor patrimonio privato, andaron soggetti, come ogni altro cittadino, alle pubbliche gravezze: e si pose più giusta proporzione tra i contribuenti delle collette in ciascun municipio, che altra riforma non restava, dopo quella di Giacomo, nell’ordinamento delle entrate pubbliche153. S’aggiunse che gli uficiali dell’erario fosser tutti Siciliani, capaci, e obbligati ad esercitar gli ufici in persona: e stabilironsi i modi e i tempi in cui rendessero ragione di lor portamenti154.

      Ma volgendosi nel terzo libro alla feudalità, s’ingaggiava a riconcedere i feudi che fossero caduti nel demanio regio; e più gratificava a’ baroni derogando alle leggi dell’imperator Federigo, anzi a tutt’ordine feudale, col permetter che si alienassero i feudi, pagata sì la decima al fisco, con lievi altre condizioni. Confermò, anzi estese alquanto, i capitoli di Giacomo per la successione de’ collaterali, e i discreti termini del militar servigio; migliorò le condizioni de’ marinai dell’armata155. Ebbe dunque la nazione, dritto di pace e di guerra e di dar leggi, moderate gravezze, più spedita e benigna amministrazione di giustizia, sicurezza pubblica, favore a’ commerci e alla agricoltura: nè merita poca lode, secondo i tempi, quella legge dell’alienazione de’ feudi, che, qualunque fosse stato il suo scopo, rendea più libere le proprietà. Federigo giurò solennemente l’osservanza di queste costituzioni; dienne perpetuo attestato nell’ultimo capitolo. Poco appresso confermava ai Catalani mercatanti in Sicilia i tre privilegi di Giacomo; rendea comuni a tutti sudditi spagnuoli del fratello que’ dati specialmente ai cittadini di Barcellona. Talmentechè è una mirabile somiglianza tra i primordi delle due dominazioni di Giacomo e di Federigo, per trovarsi ambo nelle medesime necessità in Sicilia, e sperar dall’interesse privato dei sudditi in Aragona, gli aiuti che quindi lor contrastava l’interesse del re156.

      Poi si volse Federigo alia guerra. Tenne in Palermo l’ultima adunanza di quel parlamento; ove sedendo gli ottimati a destra e a manca del trono, a fronte i sindichi de’ comuni, il re con modesta parola, chiamando ogni suo potere da Dio, aringava; conchiudendo che rimbaldanziti i nimici, strignenti d’assedio Rocca Imperiale in Calabria, era uopo incalzarli per ogni luogo in terraferma; per pochi giorni più che si sudasse sotto le armi, i Siciliani asseguirebber premio di ferma pace; ei già li vedea azzuffantisi, vittoriosi, bagnati di novello sangue nemico. I quali detti fur tanto ne’ commossi animi, che non aspettato il fine, non serbato ordine o modo, prorupper tutti in un grido di: «Guerra al


<p>145</p>

Nic. Speciale, lib 3, cap. 1.

Anon. chron, sic., cap. 54.

Montaner, cap. 185.

Dall’Anonimo pare che Giovanni di Procida fosse stato confermato nell’uficio di gran cancelliere. Ma in due diplomi del 3 aprile e 15 maggio 1296, pubblicati dal Testa., Vita di Federigo II, docum. 8 e 15, è segnato Corrado Lancia gran cancelliere. Il nome di lui si trova similmente in un altro diploma di concessione feudale a Federigo Talach, dato il 12 dicembre 1296, ne’ Mss. della Bibl. com. di Palermo, Q, q. G. 1, fog. 187. Ed è più naturale che Federigo avesse dato quell’uficio a un suo fidatissimo partigiano, che al Procida, il quale gli si era scoperto contrario.

<p>146</p>

Docum. XLIV.

<p>147</p>

Capitoli del regno di Sicilia, costituzioni di Federigo II, lib. 1, dal cap. 1 al 6. Per la parola ferracano, veggasi il cap. III del presente lavoro.

<p>148</p>

Per le difense e l’asportazion delle armi, cap. 9. Per le inquisizioni giudiziali, cap. 10. Eccezione per la falsità de’ pesi e misure, cap. 11. Esazioni sui carcerati, cap. 12. Malleverie nei giudizi criminali, cap. 13. Divieto delle esazioni negli stessi giudizi, cap. 14. Simili pei notai o piuttosto officiali dell’erario, cap. 15. Perdita dell’uficio ai magistrati che prolungasser le cause oltre due mesi, cap. 18. Divieto a diroccar le case, o guastare i poderi per misfatti dei proprietari, cap. 25.

<p>149</p>

Cap. 7 ed 8.

<p>150</p>

Cap. 17. Il cap. 16 è anche statuto di polizia, permettendo ai conti, baroni e militi di portar la spada e il pugnale. Il 19 disobbliga i cittadini d’accompagnare i carcerati.

<p>151</p>

L’antico fiume Gela o Imera.

<p>152</p>

Cap. 20.

<p>153</p>

Cap. 24, 22, 21. Il cap. 23 è regolamento per le greggi transitanti. Il 26 di pena d’infamia, privazione d’uficio, e ristorazione de’ danni al doppio, contro i magistrati e officiali trasgressori di questi capitoli.

<p>154</p>

Cap. 31, 32.

<p>155</p>

Gap. 27, 28, 29, 30, 33. Il cap. 34 rimette ai famigliar! e cortigiani del re il dritto del suggello delle concessioni, che per avventura ricevessero dalla corte.

Il di Gregorio, Considerazioni sulla Istoria di Sicilia, lib. 4, cap. 4, suppone che l’alienazione de’ feudi fosse veleno dato al baronaggio in una coppa inzuccherata. Questa sarebbe in vero una lode di altissimo intendimento a’ nostri legislatori di quel tempo; ma è da considerare, che per lo meno non fu felice il trovato. Le condizioni del commercio e delle altre industrie appo noi in quel tempo, non eran tali che dal detto statuto potesse nascere una divisione di proprietà, e indebolimento della casta de’ baroni. Infatti i peggiori abusi di feudalità che ricordin le nostre istorie, seguirono dopo tal legge, nel secolo xiv.

<p>156</p>

Diploma del 3 aprile 1296, pubblicato dal Testa, Vita di Federigo II di Sicilia, docum. 8.

Non ho fatto parola della descrizione generale dei feudi, che sembrerebbe compiuta da Federigo in questo tempo, se fosse vera la data del diploma che pubblicò il di Gregorio, Bibl. aragonese, tom. II, pag. 464 e seg. La data è del 1296, ma si dee senza dubbio portare oltre il 1303, leggendovisi il nome della regina Eleonora, la quale sposò Federigo II di Sicilia appunto in quell’anno.