Migliaia e migliaia di case galleggianti già illuminate, ormeggiate alla riva da grosse gomene di canna d’India e tenute a galla da enormi fasci di bambù legati a cento a cento, ondulavano graziosamente, scricchiolando, mentre nell’interno si udivano chiacchierii di donna, risate di fanciulli e voci di uomini.
Ondate di fumo sfuggivano dai camini e fuochi multicolori brillavano sulle zattere e dentro le case, mentre la fresca brezza notturna che veniva dal mare portava fino alla riva i mille strani odori delle cucine Siamesi.
Lakon-tay seguì il fiume, finché ebbe oltrepassato tutta la città galleggiante, urtando di frequente qualche passante; e scese verso i quartieri bassi, camminando sempre come un sonnambulo, finché giunse in un luogo deserto, dove si vedevano scintillare nelle tenebre dei fuochi giganteschi che ardevano fra una pagoda ed un tumulo gigantesco, una vera montagna di mattoni di forme strane, come se ne ritrovano sovente disegnate sulle lacche giapponesi, e che rappresentano il Fusi-yama, la montagna di fuoco.
Degli uomini seminudi, armati di lunghe picche, s’aggiravano silenziosamente intorno a quei fuochi, ora apparendo alla vivida luce della fiamma ed ora scomparendo fra le ondate di fumo denso, mentre dall’alto calavano pesantemente stormi di grossi avvoltoi neri, che gracchiavano sinistramente.
Quel luogo era la necropoli di Bangkok; la pagoda era quella di vat-saket; l’enorme ammasso di mattoni la Phuk-kao-thong, ossia la montagna d’oro, e quegli uomini bruciavano i cadaveri delle persone morte nella giornata.
Lakon-tay si fermò, quasi sorpreso di trovarsi in quel luogo funebre, e guardò con stupore quelle fiamme che facevano crepitare le carni dei cadaveri, spinti dai crematori sui tizzoni ardenti.
Una voce lo trasse da quella contemplazione.
«Padrone, che cosa fai qui?»
Era Feng, il quale da lontano lo aveva seguito, spaventato dall’aspetto tetro del generale.
Lakon-tay si voltò senza rispondere.
«Che cosa vieni a fare qui, padrone?» chiese nuovamente il giovane. «Non è qui la tua casa.»
«Non lo so,» rispose Lakon-tay. «Camminavo senza vedere né sapere dove andassi, e mi sono trovato fra questi morti.
Triste presagio. Quegli avvoltoi scarneranno ben presto anche il mio cadavere, giacché io non sono uomo da sopravvivere alla disgrazia che mi ha colpito. La mia morte calmerà la collera del re e salverà dalla schiavitù mia figlia.»
«Scaccia questi funebri pensieri, mio padrone,» disse Feng, che aveva le lacrime agli occhi. «Forse la tua innocenza verrà un giorno riconosciuta e potrai tornare ministro. Pensa quale dolore proverebbe la dolce Len-Pra, se tu morissi.»
«Mia figlia ha nelle vene sangue di guerrieri, perché anche sua madre era figlia d’un prode condottiero, e saprà rassegnarsi alla sua sventura.
No, Lakon-tay non sopravviverà alla sua disgrazia. Che cosa diverrei io domani accusato di aver fatto morire i protettori del regno, i S’hen-mheng? Un miserabile, in patria, disprezzato dai grandi e dal popolo, un essere maledetto.»
«Tu che hai salvato il regno dalle invasioni dei Cambogiani e dei Birmani e che hai domato i miei compatrioti? O mio signore!»
«È passato troppo tempo da allora,» rispose Lakon-tay con voce cupa.
«Vieni a casa tua, padrone: Len-Pra, non vedendoti, sarà inquieta.»
Lakon-tay soffocò un gemito e si lasciò condurre da Feng, senza più opporre resistenza.
Risalirono silenziosamente la riva del fiume, ritornando nei quartieri più centrali, costituiti non più da capanne, bensì da phe elegantissime, quelle graziose palazzine che si specchiano nelle limpide acque del Menam, e che, quantunque esteriormente non offrano nulla di interessante, poco hanno da invidiare ai tanto decantati bungalow di Calcutta.
Sono piccoli lavori d’architettura puramente siamese, colle travature graziosamente scolpite, con porte doppie e persiane variopinte che durante il giorno si tengono alzate, onde si possa vedere l’altare di Sommona Kodom; e sono circondate da una larga e comoda veranda dalla ringhiera elegantissima, piena di poltrone di bambù e di vasi contenenti arbusti tagliati in forma d’animali più o meno fantastici.
Ad un tratto, Feng si arrestò dinanzi a una phe di dimensioni più vaste delle altre, situata proprio sulla riva del fiume, coi muri di legno scolpito, abbelliti da strati di lacca, una vasta veranda che correva in giro, e un giardinetto chiuso da una elegante cancellata di legno dipinto in rosso.
«Ci siamo, padrone,» disse dolcemente a Lakon-tay.
Il generale, che pareva si fosse allora risvegliato da un triste sogno, alzò gli occhi verso la veranda che la luna, allora sorta, illuminava, facendo scintillare dei grandi vasi di porcellana dorati e niellati, entro cui crescevano delle peonie di Cina e delle camelie.
«Ah!»mormorò. «E Len-Pra?»
«Ti aspetterà nella sala da pranzo.»
Con una mossa lenta, quasi automatica, Lakon-tay aperse la porta d’ebano incrostata di madreperla e salì lentamente alcuni gradini, poi percorse un corridoio ed entrò in una stanza a pianterreno, illuminata da una grande lampada dorata, con un globo sottilissimo di porcellana azzurra, che proiettava sulle pareti, tappezzate di seta di Cina dello stesso colore, e sul lucidissimo pavimento di legno di tek, una luce scialba e dolce come quella dell’astro notturno.
Vi erano pochi mobili, tutti di fattura squisita. Una tavola d’ebano già apparecchiata, con tondi e vassoi d’argento cesellato, delle sedie di bambù dalla spalliera assai inclinata e d’una leggerezza straordinaria, delle mensole sostenenti vasi della Cina e del Giappone, pieni di peonie color fuoco, dei tavolini laccati ed incrostati di madreperla, coperti di ninnoli, di vasetti, di bottigliette contenenti forse dei profumi o degli unguenti meravigliosi, di pallottole d’avorio traforato e di piccole statue di bronzo e d’oro raffiguranti Sommona Kodom.
«Dov’è Len-Pra?» chiese il generale, lasciandosi cadere in una poltrona.
Una voce armoniosa, dolcissima, si fece subito udire dietro le tende di seta che si gonfiavano sotto i soffi profumati dell’aria notturna, poi una fanciulla entrò, muovendo rapidamente verso il generale.
Era Len-Pra.
La figlia del vincitore dei Birmani e dei Cambogiani aveva una figurina graziosa, sottile come un giunco, squisitamente modellata; una bella testolina, un viso dai lineamenti perfino troppo regolari per una indocinese, un profilo quasi caucasico, una boccuccia perfetta, occhi nerissimi e lampeggianti come quelli di suo padre, leggermente obliqui.
La bella capigliatura, nera e abbondante, le cadeva in pittoresco disordine sulla larga veste di seta azzurra a ricami d’oro; la pelle, quasi mai esposta al sole, era appena abbronzata, con sfumature che ricordavano certi riflessi dell’alba; aveva le braccia nude e adorne di ricchissimi braccialetti, e i piedi racchiusi in babbucce di seta gialla con ricami di perle, così piccoli da poter reggere vittoriosamente il confronto con quelli tanto decantati delle donne Cinesi.
Vedendo suo padre così accasciato, quasi interamente abbandonato sulla poltrona, col viso cupo e lo sguardo semispento, Len-Pra mandò un grido.
«Che cos’hai, padre mio?» gli chiese.
«Nulla, fanciulla mia,» rispose il disgraziato generale, risollevandosi con uno sforzo supremo. «Sono semplicemente preoccupato per la malattia del S’hen-mheng.»
«Tu stai male e sei oppresso da qualche cosa di più grave d’una preoccupazione,» disse la giovane.
«No, non è nulla.»
«È dunque gravemente ammalato anche l’ultimo dei S’hen-mheng?» chiese Len-Pra impallidendo.
«È un po’ triste, tuttavia noi lo salveremo.»
«Se dovesse morire?»
«Non vi è alcun