Era un colossale elefante, alto quasi quattro metri, con zanne lunghissime, la pelle quasi biancastra, chiazzata di macchie grigie, e assai più rugosa di quella degli altri pachidermi, anzi quasi squamosa.
Era adorno come nei giorni solenni dei ricevimenti, giacché quei fortunati animali hanno i loro giorni di visita come i re e le principesse. Ricchissimi anelli d’oro massiccio, con rubini e smeraldi di valore inestimabile, gli ornavano le lunghissime zanne; fra i due occhi aveva la mezzaluna pure d’oro massiccio con diamanti e perle, sostenente nove cerchi d’oro destinati ad allontanare i malefici; agli orecchi, degli enormi pendenti sfolgoranti di pietre preziose, e sul dorso una magnifica gualdrappa di seta, intessuta con oro e tempestata di zaffiri, di rubini, di smeraldi e di diamanti.
Accanto aveva il driving-hook, l’uncino di cui si serviva il suo mahut, ossia conduttore favorito, per guidarlo, un capolavoro di ricchezza e di buon gusto, con cesellature meravigliose, il manico di cristallo di rocca e la punta d’oro ornata di pietre di gran valore.
Con tutte quelle ricchezze che portava indosso e che sarebbero state più che sufficienti a rendere felice ed orgoglioso il più esigente monarca dell’Indocina, il S’hen-mheng non sembrava affatto contento. Doveva essere ben ammalato il Signor elefante bianco, per non apprezzare più quelle ricchezze!…
E lo era davvero ammalato, quel colossale pachiderma.
Colla gigantesca testa appoggiata su una zampa, la proboscide stesa al suolo come gli fosse diventata ormai troppo pesante, gemeva dolorosamente, mentre grosse lagrime gli cadevano dagli occhi.
Il suo immenso corpaccio tremava tutto, il suo respiro era rauco ed affannoso e dalla sua epidermide si staccavano in gran numero delle squame, che i paggi della sua corte ed i mahut s’affrettavano a raccogliere religiosamente ed a collocare in un’urna d’oro.
Di quando in quando, il colosso con uno sforzo sollevava la testa, spazzava il tappeto colla tromba e mandava un lungo barrito, che si ripercuoteva lungamente sotto le volte dell’immensa sala di marmo.
Poi un impeto di furore improvvisamente lo assaliva, e con un violento colpo di proboscide scagliava lontano le canne da zucchero e i dolci pasticcini che le principesse di sangue reale avevano manipolato espressamente per lui.
Lakon-tay si avvicinò al colosso, accompagnato dal mahut favorito, il solo che il Signor elefante bianco ancora rispettasse, poiché tutti gli altri dovevano tenersi lontani se non volevano finire come il capo dei guardiani, che era stato appena allora portato via, il cranio ridotto in una poltiglia di ossa e di carne.
L’elefante, vedendolo, fissò su di lui uno sguardo che non era punto benevolo e alzò minacciosamente la proboscide, come se si preparasse a colpire.
Lakon-tay, vedendo quella mossa, diventò pallidissimo e un doloroso sospiro gli uscì dalle labbra. Gli pareva che il Signor elefante bianco lo accusasse, con quell’atto, della propria morte che ormai pareva imminente.
Il mahut favorito fu pronto a trarre indietro il ministro, temendo giustamente una nuova disgrazia.
«Sta per morire, vero?» chiese Lakon-tay con voce semispenta.
«Non ho più speranze, mio signore,» rispose il mahut.
«Non sono riusciti a indovinare la causa della sua malattia?»
«Nessuno capisce niente, signore. Anche mezz’ora fa è stato visitato da un medico che gode grande fama in tutta la città.»
«Che cosa ha detto?»
«Che pel Signor elefante bianco, ormai non vi è più rimedio.»
«Beve sempre?»
«E avidamente, come se avesse nel suo sacro corpo un fuoco che gli brucia le viscere.»
«Ed è il settimo che muore così,» disse Lakon-tay, facendo un gesto di disperazione. «Quali disastri piomberanno sul nostro paese, quando anche l’ultimo S’hen-mheng sarà spirato? E non se ne trovano più!…»
«Anche gli ultimi cacciatori spediti nei dintorni del lago di Nonhang sono tornati a mani vuote, dichiarando che non ne esiste alcuno in quelle foreste,» disse il mahut.
«Sventura su noi,» balbettò Lakon-tay. «Sommona Kodom ci abbandona, eppure i nostri talapoini hanno innalzato nuove pagode e raddoppiato le offerte. Perché il nostro dio è in collera con noi?»
«Non lo so, signore.»
«E se invece che a Sommona Kodom queste disgrazie fossero da attribuire a una mano sacrilega?» chiese ad un tratto il ministro, che pareva fosse perseguitato da un sospetto.
Il mahut lo guardò con terrore, mentre il suo viso diventava improvvisamente smorto e un tremito scuoteva le sue membra.
«Signore, che cosa dite?» chiese con voce alterata.
«Che la morte dei sette S’hen-mheng non mi sembra naturale,» rispose Lakon-tay. «Questo fuoco misterioso che divora le loro viscere può essere stato prodotto da un maleficio.»
«Che il re della Birmania, geloso dei nostri S’hen-mheng, li abbia fatti maledire dai suoi talapoini?»
Lakon-tay stava per rispondere, quando un barrito spaventevole, che fece accorrere precipitosamente tutti i sacerdoti, i nobili, i paggi ed i guardiani, fece tremare la sala. Il S’hen-mheng si era rizzato sulle ginocchia, agitando furiosamente la proboscide e le larghe orecchie. I suoi occhi mandavano fiamme e un tremito fortissimo scuoteva l’enorme corpo.
Un grido sfuggì da cento bocche:
«Il S’hen-mheng muore!»
Con uno sforzo disperato l’elefante riuscì ad alzarsi in piedi. Era spaventevole: barriva orribilmente e pareva che fosse lì lì per scagliarsi su tutta quella gente e polverizzarla.
Stette un momento così ritto, colla proboscide tesa, poi rovinò al suolo con fracasso orribile, schiantandosi una zanna e spezzando la gran placca d’oro che gli ornava la fronte.
Dalla proboscide gli uscì un getto di sangue nero.
«Morto!» gridarono i talapoini, i paggi ed i guardiani, cadendo in ginocchio.
Il favorito del S’hen-mheng si avvicinò a Lakon-tay, che pareva pietrificato dal terrore.
«Signore,» gli disse, mentre i suoi occhi si empivano di lagrime.
«Avvertite il re della sventura che è piombata sulla sua casa.»
Capitolo II. Il re del Siam
La dolce Parvati, la sposa del dio Sivah, così venerato dagl’indiani, trovandosi un giorno nel bagno, si divertiva a raccogliere le bianche pellicole che si staccavano dal suo grazioso corpo.
Le preziose particelle di quell’essere divino vennero modellate dalle sue dita, come l’argilla dalle mani di uno scultore. Tosto delle forme umane cominciarono a delinearsi, ed una statuetta di bimbo uscì dalla vasca di diaspro, entro cui la bellissima dea si bagnava.
La dea – narra sempre la leggenda indiana – le soffiò allora nella bocca, un vagito s’udì: era un essere umano che apriva gli occhi alla luce.
Era trascorso quasi un anno, quando il terribile Sivah, tornando dalla guerra contro i giganti maligni che volevano bruciare il mondo, con sua sorpresa e collera, trovò nel palazzo reale un nuovo rampollo di cui non s’aspettava l’esistenza. Colto da un tremendo accesso di furore, trasse la scimitarra tinta mille volte nel sangue dei nemici e tagliò netto il collo a quel fanciullo.
La dolce Parvati raccontò allora con quale innocente artificio aveva animato quella statua, di cui aveva ad un tempo fornito la materia prima e la manifattura, e siccome vi sono dei casi in cui gli stessi dèi accettano volentieri le ipotesi più favorevoli, Sivah non sollevò alcun dubbio sull’innocenza della diletta sposa.
«Sono stato un po’ vivace,» le disse. «Ho l’abitudine di agire troppo precipitosamente in tutte le cose mie, ma conosco un mezzo per riparare al mal fatto.»
Appena pronunciate