Capitolo Uno
3 Maggio
Un deserto in Medio Oriente.
Era tardo pomeriggio, il sole toccava appena l’orizzonte occidentale. Otto cavalieri sui loro cammelli si stagliavano contro il tramonto. Guardavano l’oasi sottostante. Era tutto immobile nelle lunghe ombre che si estendevano attraverso le pianure verso l’acqua ferma.
Uno dei cammelli brontolò, ma i cavalieri lo ignorarono.
Un altro imitò la sua lamentela.
“Anch’io ho sete”, disse Dokar.
“Zitto”, disse Cova. Il silenzio prevalse per qualche minuto.
“Sikandar è a trenta chilometri da questo posto”.
Dokar ammazzò una mosca tse-tse schiacciandola sul dorso della propria mano.
Pele parlò. “Starà pascolando le sue magre capre. Non è da queste parti”.
“L’ultima volta che hai detto così ti sei quasi preso una pallottola”.
Cova indossava un caftano azzurro pallido, mentre gli altri erano vestiti di nero.
“Ora ho il mio fucile”. Pele accarezzò la canna del suo Winchester. “Ricambierò volentieri il favore”.
“Perché è l’acqua di Sikandar?” chiese Dokar. “Gliel’ha donata il Dio del bene e del male?”.
“È scritto da molto tempo”, disse Cova, “l’Oasi di Mirasia appartiene alla tribù dei Sukela”.
“Allora dovresti scrivere che l’Oasi di Mirasia ora appartiene alla tribù dei Jankay Lomka”.
Cova si voltò lentamente a fissare il giovane.
Guardò la sua coperta da sella, poi raccolse un filo allentato.
Cova guardò l’oasi tranquilla ancora per un momento, poi diede un colpetto alla spalla del cammello con il manico della frusta. “Su”.
I sette uomini la seguirono lungo il lato della duna.
* * * * *
Samson Uballus Central High School, Los Angeles, California.
Monica giocava con il suo cibo, raccogliendo i piselli con un cucchiaio e impilandoli sul suo purè di patate. Erano passate due settimane da quando erano tornati negli Stati Uniti dal deserto di Anddor Shallau. La mensa della scuola era piena di gente. Conversazioni e risate la accerchiavano, ma lei non si accorgeva di nulla.
Guardò i suoi tre amici al tavolo. Betty e Albert si scambiavano messaggini sorridendo e bisbigliando. Ma Rocco sedeva con le braccia conserte, fissando un gruppo della squadra di football che rideva per ogni cosa stupida che uno di loro diceva.
“Sembra tutto così superficiale”, disse Monica, “vero, Roc?”.
Roc annuì e infilzò una patatina fritta con la forchetta di plastica. La immerse in una pozza di ketchup, ma poi la lasciò cadere di nuovo sul vassoio. “Mi sento fuori posto”.
“Lo so”.
“Andrai al ballo di fine anno?” chiese Roc.
Betty alzò la testa. Quella parola apparentemente attirò la sua attenzione. Guardò Albert.
“Non ho il minimo interesse per il ballo”, rispose Monica.
“Tu verrai con me, vero?” chiese Albert a Betty.
Lei sorrise. “Diavolo, no”.
“Allora ti morderò il collo”. Inclinò la testa, mostrando i denti, poi fece una mossa verso di lei.
Lei ridacchiò, spingendolo via.
“Smettetela voi due” esclamò Roc. “Vi comportate come dei bambini”.
“Sei solo geloso perché non hai una ragazza per il ballo” rispose Betty.
“Ce l’avrei, se Ibitsan fosse qui”.
“Beh, non c’è”, rispose Albert. “Potresti portare Monica al posto di Ibitsan. Così forse uscirete entrambi da questa depressione, almeno per una sera”.
Roc guardò Monica, che fece spallucce.
“Che ne dite?”, disse Betty. “Monica finge di essere Ibitsan e Roc finge di essere Sikandar”.
“Buona idea”, disse Albert. “Altrimenti, starete a deprimervi in casa mentre noi balliamo e ci divertiamo”.
“Ikara demise, um, masde plakez?” disse Roc in Olabi. Poi tradusse in inglese, “La Banda dei Quattro va al ballo”.
Monica si mise a ridere. “Hai detto: ‘Quattro cammelli mangiano foglie di cactus’“.
“C’ero quasi”, disse Roc. “Ci sto a fingere di essere Sikandar per una notte. Ma niente baci”.
“Klamde Ibitsan,” rispose lei. “Lesdim madkes plakez (Io sono Ibitsan. Tu baci le foglie di cactus).”
Roc rise. “Affare fatto”. Tese il pugno perché lei lo battesse.
“La Banda dei Quattro”, disse Albert. “Mi piace”.
La campanella suonò e portarono i vassoi al bancone, poi si diressero alla loro prossima lezione.
* * * * *
Al tavolo della cucina della modesta casa bicamere di Dom ad Arcadia, un sobborgo di Los Angeles, lui stava digitando appunti sul suo iPad, mentre lei, seduta accanto, li leggeva e modificava. Google Docs permetteva ad entrambi di lavorare sullo stesso documento contemporaneamente.
Adora lesse in silenzio per alcuni minuti.
Leggi per la cittadinanza nella nuova Nazione della Tranquillità.
Ogni potenziale cittadino dovrà soddisfare i seguenti requisiti:
Deve essere un rifugiato, un orfano di guerra o uno sfollato.
Deve unirsi ad una delle 194 gilde. Una gilda per ogni isola del Mare della Tranquillità 2.0. Entrando in una gilda, imparerà o migliorerà un’abilità commerciale.
“Come faremo a costruire le isole?” chiese Adora.
“Il problema è la profondità dell’acqua. Non possiamo costruire un’isola rocciosa che vada 120 metri sotto la superficie. La base dovrebbe essere larga centinaia di metri”.
“Che ne dici di isole galleggianti?”.
“Mmm”. Dom sorseggiò il suo caffè. “Se le ancorassimo al fondo del mare, potrebbe funzionare”.
“Cerco come ancorano le piattaforme di perforazione nell’oceano”. Cercò su Google.
Dom inserì altre informazioni, mentre lei leggeva i risultati della ricerca.
“Hai trovato qualcosa?” chiese lui.
“Sì, guarda qui”. Girò l’iPad per mostrargli lo schermo. “Ormeggio con pila a ventosa”.
Lui studiò la foto per un momento. “È davvero enorme”.
“Deve esserlo per tenere in posizione una piattaforma petrolifera. Arriva parecchi metri sotto la sabbia”.
“Chissà quanto regge in caso di vento forte”.
“Questa è una cosa che avremmo dovuto controllare”, rispose lei, “la velocità del vento durante quella tempesta di sabbia”.
“Ehm-ehm. Volevo farlo, ma qualcuno continuava a distrarmi in