LA DORA
Memorie di Giuseppe Regaldi
I.
Francamente, io preferisco la prosa del Diderot, per un esempio, a quella dello Chateaubriand, e di gran lunga poi il Voltaire al Lamartine. Ma a dirne la ragione mi troverei un po' sgomento; tanto ella è semplice, che ai gran tiratori di formole risica di non parere né meno una ragione: in somma, è che io amo la poesia in poesia e in prosa la prosa. Cosí che, quando veggo di questi libri divisi, non a capitoli, ma a cifre romane in quella specie di stanze epiche tanto oggigiorno alla moda, come diceva il Sainte-Beuve a punto di certe storie del Lamartine, quando veggo della prosa divisa per istrofe, novantanove per cento io quel libro non lo leggo. Gli è che i razzi a lung'andare mi stufano. E coteste strofe di periodetti con la loro imaginetta ciascuno, montano, montano, fin che vadano a incappellarsi di una grande imagine finale, il coronamento dell'edifizio; proprio come il razzo che fila via per l'aria serpeggiando con quella sua striscia scurastra e fischiante, poi ricasca in una momentanea pioggetta di piú colori, poi tutto finisce in un fumacchio. Ora, a veder tirare un quattrocento razzi un dopo l'altro, resistereste voi, o lettori? E né pur io a leggere quattrocento pagine di prosa a strofe; tanto piú essendovi il pericolo ognora imminente d'un agguato. Dico di voi, traditrice imagine, brigante epifonema, assassina iperbole, che, mentre sono in vena, puta il caso, di sillogizzare su quel che leggo, mi cogliete al canto, e levatomi a mezza vita nell'aria mi urlate: Pover uomo, tu non ci aspettavi qui! o un po' di emozione, o sei un imbecille.
II.
Capitandomi da prima alle mani la Dora del prof. Regaldi, io mi mossi, non ostante la partizione per cifre romane, a svolgere il libro, dietro questo ragionamento—Il Regaldi, quando vuole scrivere in poesia, sa scrivere versi ben numerosi e di vena (ricordavo specialmente l'Armeria reale e la Umanità): onde il bisogno di apparire poeta a ogni piè sospinto anche in prosa per lui non è urgente. Ancora: il Regaldi, quando vuole scrivere in prosa, ha mostrato di saperlo fare con larghezza e con determinazione di stile ad un tempo (e ricordavo i saggi su Parga, su 'l Capodistria, ed altre belle pagine staccate d'un viaggio per l'Ionio): onde questa Dora sarà di certo imaginosa, che non è male; ma sarà anche ragionevole e ragionata, che è bene anzi tutto. Di piú, aggiungevo, se la prosa poetica è un genere letterario (che ne dubito), in quel che è descrizione di viaggi dee fare men trista prova anche a cui non le sia favorevole molto. Nel viaggio in fatti, massime per paesi di montagna, lo spirito della natura mescolandosi a quello dell'uomo lo rinfresca quasi ed assottiglia; onde la maggior prontezza a comporsi o ricomporsi, di su i diversi aspetti che gli si presentano, altrettante reminiscenze e fantasmi; e la varietà degli oggetti succedentisi sempre nuovi e diversi porta seco la molteplicità delle imagini, e la varietà dei toni e dei colori rende, quasi direi, probabile anche la partizione della prosa per istrofe. In fine mormoravo fra me e me questi versi del poeta:
Vidi fiumi tra campi ubertosi,
Vidi laghi tra chine fiorite,
Città prische, famose bastite,
Monumenti dell'italo onor.
Ma il pensier piú soave, piú santo,
Che i disir di mia vita nudría,
Fu il pensier della valle natía,
Dei primi anni castissimo amor.
A questo amore per il paese ove uno è nato risponde sempre l'animo di chi non si avvezzò ad ammirare fumum et opes strepitumque. Mi crebbe quindi il desiderio di sentire come il Regaldi, reduce di Grecia e di Soria, ritrovasse e dipingesse una valle del suo Piemonte: e prima lessi la Dora di séguito, poi la rilessi in piú punti; e tuttavia con piacere.
Non si aspetti però il lettore che io gli riferisca qui per filo e per segno ciò che la Dora contiene. Prima di tutto, la critica a modo d'indice a me non garba: e poi questa è della Dora la seconda edizione dopo quella del Sessantacinque, il che in tanta scarsezza di chi legga libri è non mediocre lode all'autore: finalmente di sì fatti libri non si può dare un epilogo. Se io dovessi dire che cosa è propriamente la Dora, la definirei una guida dal Monginevra a Torino composta da un poeta e insieme un itinerario poetico composto da uno studioso delle patrie antichità. Il Regaldi, benché poeta e in sua gioventú improvvisatore, studia i suoi soggetti con amore, anzi con ostinazione. Per comporre l'ode sul telegrafo elettrico, si dice ch'ei stésse chiuso qualche diecina di giorni in un gabinetto di fisica, tormentatore assiduo del professore e dell'assistente. Dell'Armeria reale v'è chi preferisce alle ottave le note illustrative: per me è uomo di poco gusto, ma egli afferma di amar l'erudizione. Anche per questo libro su la Dora v'è ragion di credere che il Regaldi abbia rifrustato molte cronache e memorie paesane, e il nome del Cibrario che spesso gli ricorre sotto la penna ci è arra di sicurezza.
Di che ne viene una varietà notevole di materie e di stile. V'è l'idillio a canto all'ironia, la descrizione olezzante di fiori con la dissertazione polverosa dalle biblioteche, e dialoghi, e apostrofi, e anche visioni. Qui, un paesaggio e una pittura di costumi; lí, una leggenda feudale e religiosa; appresso, la storia d'un convento e la narrazione di una battaglia; qua un ospizio di frati, là un monumento romano; e poi un miracolo, e poi un colloquio di politica. Re, monaci, santi, guerrieri, montanari, industriali, artisti, poeti, si succedono dal Monginevra al Moncenisio, per le Chiuse e alla Novalesa, sul Pirchiriano, a Torino, a Superga, a Sántena.
Anche di miracoli parla il Regaldi; e fa bene. La composizione di coteste tradizioni giova agli studiosi per sorprendervi e raffrontare fra loro le costumanze e le facoltà d'una famiglia di popoli. Vero è che egli appartiene a quella scuola poetica che adoperava assai il soprannaturale, a quel modo che certa scuola pittorica fece grande sciupío di azzurro di Prussia a fine di ristorare il cristianesimo. Non però il Regaldi metterebbe pegno per acquistar fede ai miracoli ch'egli racconta. È ben capace di stare a udire con faccia tosta un da ben parroco che gl'infinocchi il racconto di non so che pisside portata via da certi soldati, e che poi fece un buco nei sacchi delle salmerie militari, e se ne rivolò tutta raggiante al suo posto: ma dopo ciò fa una crollatina di capo, conchiudendo «Lascio il miracolo sotto le arcate della chiesa parrocchiale» ecc. ecc., e passa a sbizzarrirsi con l'Inquisizione e suoi nefandi processi alle streghe o masche. Ancora: il Regaldi s'intrattiene volentieri a chiacchiera con preti e frati, e spesso ha da lodarsi in buona fede, e io lo credo, del fatto loro; non sí però che un sorrisetto fine insieme e bonario non gli scappi talvolta. «Che v'è di nuovo a S. Antonino? (un paese qualunque della montagna). Di veramente nuovo, mi fu risposto, abbiamo il prevosto Agostino Belmondo, accolto ora con feste popolari. Annessa alla prepositura v'ha la pingue rendita di cinque mila franchi, che il neo-prevosto saprà usare piamente, perché evangelico pastore lo annunziano la fama e i versi del bravo sacerdote Don Picco.» È veramente di buon gusto, e contenta tutti, il preposto, Don Picco poeta e gli spiriti forti del villaggio. La religione in somma del Regaldi, come di molti scrittori della sua generazione, è un idealismo, se non vogliasi piuttosto un ottimismo poetico, il quale si allarga a tale una tolleranza che confina da piú lati con lo scetticismo.
Del resto il Regaldi considera con roseo ottimismo tutte le cose e gli uomini tutti. Egli, come ogni poeta da natura e nello stato di natura, è buono. Ammira facilmente, facilissimamente loda: per lui non vi sono né scuole né partiti né sètte: cita Giuseppe Mazzini e il commendatore Minghetti; ama il Cibrario e il Brofferio; il Prati, Norberto Rosa ed il Révere. È un uomo egregio che vi apre le braccia e vi sorride di primo acchito; che si esalta della sua stessa parola, e prorompe