— Senti, anima mia, — disse ad un tratto, mentre attraversavano il fondo della valle, fra grandi macchie di oleandri fioriti, — non potresti fare la carità di finirla? Perchè piangi? Non lo sapevi forse da molti e molti mesi?
Invece di finirla, Giovanna singhiozzò forte: allora zia Bachisia vedendo che i compagni di viaggio erano tutti lontani, si sfogò con voce bassa, rauca, che a Giovanna arrivava come da lontano, sfumata nel gran silenzio del luogo.
— Non lo sapevi tu, anima mia? possibile che tu sia così sciocca? Ha egli sì o no ammazzato l'avoltojo crudele? Sì, egli lo ha ammazzato...
— Egli non ha mai detto ciò — osservò Giovanna.
— Mancava soltanto che egli fosse così matto da dirlo, anche! Guarda un po', anima mia, mancava ciò soltanto! D'altronde io ero certa che egli, un giorno o l'altro, avrebbe schiacciato l'avoltojo come si schiaccia la vespa che ci ha punto. Tu dici che Costantino è un buon cristiano? Anima mia, ora tu sai un po' cosa sia l'odio. Ammazzeresti tu, sì o no, gli uomini che hanno condannato Costantino? Ebbene, egli ha ammazzato l'avoltojo, ed io lo compatisco, fino a un certo punto, perchè io conosco il cuore umano. Ma non gli ho perdonato, e non gli perdonerò mai la sua imprudenza. Ah, questo no, per amor di Dio! Egli aveva moglie e figlio, egli doveva far la cosa con prudenza, se voleva farla. E ora basta, e ora finiscila. Tu sei giovine, Giovanna, anima mia; figurati che egli sia morto.
— Ah, egli non è morto! — disse Giovanna con disperazione.
— Ebbene, allora appiccati. Ecco, vedi là quell'albero? Va e appiccati là. Ma non tormentarmi oltre! — esclamò zia Bachisia, alzando la voce. — Sei stata sempre il mio tormento. Se tu avessi sposato Brontu Dejas avresti fatto bene. No, tu hai voluto quel mendicante. Ebbene, ora va e appiccati.
Giovanna non rispose. In fondo anch'ella credeva Costantino colpevole, ma da molto tempo lo aveva perdonato; davanti al suo dolore non esisteva che la condanna, e non sapeva capacitarsi come semplici uomini potessero così disporre della vita d'un loro simile. Ah, come ella odiava la loro misteriosa potenza! La odiava come odiava i fantasmi terribili, mai visti ma spesso sentiti, che popolavano le notti di tempesta.
E cammina cammina, si risalì la valle, si cominciò a salir le montagne; il sole calava, l'orizzonte si apriva, il cielo intenerivasi, il paesaggio perdeva la sua crudele desolazione. Lunghe ombre calavano dalle cime, stendendosi come tappeti sulle basse macchie cenerognole dove fioriva ancora qualche rosa canina: spiravano soffi di vento, pieni di odori selvatici. L'anima si consolava in quell'improvviso refrigerio di ombra e di frescura. Un compagno di viaggio s'avvicinò alle due donne e cominciò a raccontare una storiella di non so quali avventure strane capitate una volta, in quelle vicinanze, ad un suo amico: e ad un certo punto la storiella diventò così amena che Giovanna sorrise vagamente.
E cammina cammina, venne il tramonto, e dall'alto delle montagne si vide il mare, steso come una fascia di vapori azzurrognoli nel chiaro orizzonte. Al di là delle brughiere, formate di macchie così potenti che resistono ai pazzi venti invernali ed alle saette del solleone, sugli altipiani melanconici, sorgenti come isole sconosciute in un mare di luce e di solitudine, sta il paesello delle Era, Orlei, nido di gente bella, forte e selvatica, dedita alla pastorizia e alla coltivazione del grano e del miele. I pascoli verdi, intersecati di roccie, in primavera folti di asfodelo e fragranti di menta e di timo, e i campi di frumento raggiungono e circondano il piccolo gruppo delle casette costrutte di pietra schistosa, lucente come argento brunito; e grandi alberi ombreggiano qua e là quel nido di quaglia posato fra il grano: in lontananza si vedono verdi linee di tamerice, foreste di timo e di corbezzoli, e gli sfondi infiniti dell'altipiano, stesi sotto un cielo chiaro di una dolcezza e d'una tristezza indicibili. A destra, su questo stesso cielo, posano, come immense sfingi, azzurre al mattino, color lilla al meriggio, e violacee o bronzine alla sera, le montagne solitarie, rigate di foreste, animate da aquile e da avoltoj.
Le Era giunsero al paese verso sera, quando appunto monte Bellu, il colosso delle sfingi, svaporava violaceo sul cielo cinereo. Il paesello era già deserto e silenzioso; sul selciato rozzo delle strade il passo dei cavalli risuonava come pioggia di pietre.
I compagni di viaggio si sbandarono di qua e di là, e le due donne arrivarono sole davanti alla loro casetta che sorgeva in una spianata sopra lo stradale. Un'altra casa, tinta di bianco, la sovrastava. Un gran mandorlo, rasente ad un tratto di muriccio a secco che partiva dalla cantonata di casa Era, sporgevasi sul sottostante stradale, al di là del quale cominciavano i campi.
Qua e là sulla spianata, sotto il mandorlo, davanti alla casetta scura delle Era e davanti alla casa bianca dei Dejas, posavano grosse pietre che servivano da sedili. La spianata, così, era un gran cortile comune a tutto il vicinato.
Appena arrivata, Giovanna si lasciò scivolare dal cavallo, e indolenzita e curva andò verso una donna, una parente alla quale aveva lasciato in custodia la casa ed il bimbo, che le veniva incontro col piccino fra le braccia. Glielo tolse, se lo strinse fra le braccia, e ricominciò a piangere, nascondendo il viso sulla piccola spalla del bambino. Ora il suo pianto era calmo, d'una disperazione profonda: le pareva che il dolore sino allora provato fosse nulla in confronto al dolore che provava ora. Il bambino, di appena cinque mesi, con un visetto un po' ruvido e due piccoli occhi violacei lucenti, con una cuffia dura, rossa, circondata di frangie che nascondevano la piccola fronte, aveva riconosciuto la madre, e le aveva afferrato forte forte un lembo del fazzoletto, scuotendo i piedini e facendo:
— Ah, aah, aaah...
— Malthinu mio, Malthineddu mio, mio solo bene in terra, il tuo babbo è morto... — disse Giovanna piangendo.
La parente capì che Costantino era stato condannato a gravissima pena e cominciò a piangere anche essa. Zia Bachisia sopravvenne, spinse Giovanna entro casa e pregò la parente d'aiutarla a scaricare il cavallo; diceva con voce bassa:
— Siete pazze, davvero. C'è bisogno di pianger così, davanti a quella casa bianca? Vedo la testa d'uccello di comare Malthina. Ah, essa sarà contenta del nostro male...
— No, — disse la parente, — essa è venuta più volte ad informarsi di Costantino e si è mostrata dolente: mi disse d'aver sognato che l'avevano condannato ai lavori forzati.
— Ah, è il dolore del cane rabbioso: eh, io la conosco la vipera velenosa, essa non può perdonarci. D'altronde, — soggiunse, avviandosi verso la porta con la bisaccia sulle spalle, — essa ha ragione; e non ce la possiamo perdonare neppure noi.
Zia Martina Dejas era la proprietaria della casa bianca e madre di quel Brontu Dejas che aveva già chiesto la mano di Giovanna ottenendone un rifiuto. Era molto benestante, ma avara, e zia Bachisia s'ingannava assai credendosi odiata da lei, perchè la vecchia Dejas era rimasta indifferente al rifiuto.
— Ecco, — disse zia Bachisia, quando il cavallo fu scaricato, — fammi ancora un piacere, Maria Chicca, va e riconducile il cavallo; e diglielo pure che Costantino è stato gettato per ventisette anni in reclusione: poi osserva il viso che fa.
La parente prese subito la briglia del cavallo che era stato preso a nolo dai Dejas, e andò verso la casa bianca. Questa casa, che i Dejas avevano acquistato pochi anni prima all'asta, espropriata ad un mercante fallito, era grande e comoda, preceduta da un portico quasi signorile, dove zia Martina lasciava passeggiare i majaletti e le galline. Non era una casa per pastori selvatici come i Dejas, e il rozzo arredamento delle stanze, composto di letti di legno, altissimi e duri, di arche rozzamente scolpite, di sgabelli e sedie pesanti, lo dimostrava.
Zia Martina stava nel portico, e filava ancora (ella sapeva filare anche al buio) quando Maria Chicca le ricondusse il cavallo. La casa era completamente deserta, perchè Brontu