Semiramide: Racconto babilonese. Anton Giulio Barrili. Читать онлайн. Newlib. NEWLIB.NET

Автор: Anton Giulio Barrili
Издательство: Bookwire
Серия:
Жанр произведения: Языкознание
Год издания: 0
isbn: 4064066069025
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che si circonda d'un candido anello, e i cui satelliti, nascondendosi tratto tratto dietro al suo disco, lo faranno apparire divorator de' suoi figli; Merodach, il più appariscente, il più splendido, epperò dal popolo babilonese chiamato figlio di Bel, e adorato più tardi siccome il vero monarca de' cieli; Nergal, il corrusco di luce rossiccia, fatto signore dell'armi; Nebo, il sapiente, protettore della eloquenza e della autorità regale, non ancora sformato dalle volgari leggende, che tra gli Elleni lo diranno rapitore di mandrie; Istar, finalmente, la stella dei soavi splendori, che la venerazione delle genti confonderà coll'antica Beltis o Bilit, forma femminea di Bel, e con Daokina, la compagna di Hoa. Astro in cielo, anima della natura in terra, diviene la consolatrice dei cuori, la increata bellezza, la fonte dell'amore; celeste, è Taauth; terrestre, è Zarpanit. Eccola adunque, sempre una in tutte le sue svariate sembianze, nata dalle onde, splendente nei cieli, vivente nel creato, cara ai mortali, madre, signora ed amante.

      A lei sacro tutto ciò che risplende per grazia e leggiadria; a lei sacra la lieta fecondità; a lei sacro l'amore che ingentilisce i costumi. A lei dedicate le prime pietre che il volgo agreste ammirerà, sporgenti, solitarie, scalzate dalle acque, lunghesso il dorso dei monti; a lei i primi simulacri che il fantastico genio dell'India ornerà di cento mammelle, a significarne la materna abbondanza, laddove il genio più corretto degli Elleni la ritrarrà nelle sembianze della donna amata, e vedrà il sommo della sua divina beltà nel complesso di tutte le bellezze di Grecia. A lei consacrate le isole e i boschi odorosi, dove gemono le colombe e sguardo profano non penetra i dolci segreti. Ogni umana cosa si corrompe pur troppo, e la casta adorazione cederà il luogo a mostruosi misteri; dei quali, al postutto, è agevole il sentenziare, col sangue e il giudizio assottigliati da migliaia d'anni trascorsi.

      E Militta Zarpanit chiamava ai suoi amabili riti la gente di Sennaar. Era essa la divinità più grata al popolo babilonese. Belo, insieme con le sette sfere lucenti, aveva la sua torre dai sette piani e dai sette colori nel borgo sacerdotale di Barsìpa. La triade antica delle fondamenta della terra aveva la piramide di tre piani, innalzata in quella parte occidentale della città che è più vicina all'Eufrate. Ilu, il temuto iddio delle acque, avea la città tutta quanta e la soggetta pianura; Nisroc, o Salman, núme dalle ali e dal rostro aquilino, Assur, il protettore, nella cui faccia umana e nelle membra di toro alato raffiguravasi la forza e l'intelligenza divina, custodivano, paurosi simulacri, le cento porte di Babilu Militta, più soave e più cara, aveva sulla riva destra del gran fiume il suo tempio, i penetrali, la selva e i riti notturni. Non risplendeva essa, amica stella nei cieli, la prima ad apparire dietro al sole cadente, l'ultima a dileguarsi ai primi chiarori dell'alba?

      Il suo bell'astro scintillava nell'azzurro sereno, accanto alla colma luna, rallegrando il creato di miti splendori, allorquando il giovine Ara, vestito delle nuove fogge babilonesi, si inoltrò, in compagnia del suo Bared, sotto i platani che faceano confine alla selva. Quel lieto viavai di gente sconosciuta, que' volti sfavillanti di gioia, quelle donne a mezzo velate che si appoggiavano fidenti al braccio degli amati, quel luccichìo di fiaccole, quell'effluvio di fragranze, quell'onda di musicali concenti tra i rami, rapivano il suo cuore, facendolo immemore d'ogni cosa, susurrandogli arcane parole, che avevano un'eco nel profondo dell'anima. Giovinezza beata! come le arride il futuro! e come i suoi dolci incantesimi possono far tacere in lei le mestizie d'un passato, che ancora non ha avuto agio di mutarsi in assenzio! A lui l'ignoto, con le sue lusinghe, le promesse, le speranze dolcissime, sorrideva sotto quei rami in quella moltitudine appariscente e festosa, immagine del mondo in cui egli era entrato per la porta d'avorio. Ed ammirato, estatico, fuori di sè, saliva lentamente, rasentando le belle coppie innamorate, pei meandri del bosco.

      Com'egli fu giunto al sommo del poggio (chè tale era la forma del sacro recinto), gli si parò davanti agli occhi la maestosa mole del tempio, torreggiante su d'una piattaforma che gli facea terrazzo in giro, e a cui si saliva dai quattro lati, la mercè di ampie gradinate. Le mura di sostegno si vedeano fregiate di bassorilievi e dipinti, in onore della Dea, e di iscrizioni, scolpite nei venerati caratteri della stirpe degli Accad, somiglianti a chiovi impressi per lungo ed in mille guise intrecciati. A' piedi delle gradinate vegliavano leoni di granito; certamente posti colà, sotto gli occhi della Dea, come emblemi della forza, cui la bellezza soggioga. E il tempio difatti innalzavasi poco più in alto, cinto da doppio giro di colonne, coronato di capricciosi fregi e di eleganti merlature, sormontato da una svelta cupola, rilucente nello spazio azzurro ai raggi della luna.

      Il suono dell'arpe e dei cantici era da pochi istanti cessato innanzi all'ara della gran madre Militta, e già la moltitudine devota scendeva a torme dal limitare, spandendosi lungo i terrazzi e per le scalinate, a guisa di fiume che rompa fuori dagli argini. Il vano della gran porta appariva vestito dell'aurea luce, ond'era sfolgoreggiante l'interno, e di là venian profumi d'incenso, di gálbano, di cinnamomo e di mirra.

      Dopo essere rimasto un tratto immobile a contemplare da lunge quella scena incantevole, il re d'Armenia si avviò verso la gradinata, in mezzo alla moltitudine, che scendeva dal tempio, o saliva.

      I raggi della luna rischiarando il suo volto e la leggiadra persona, si fece a breve andare dintorno a lui quella ressa curiosa, quel bisbiglio, quell'avvicendarsi di domande e di ammirazioni, che furono mai sempre, e saranno, il più naturale omaggio reso alla bellezza dal volgo dei riguardanti. Ora, presso i babilonesi, come presso tutti i popoli antichi, più schietti adoratori della forma, quell'omaggio era più facile a rendersi, nè solamente riservato alla donna, come accade tra noi, non so se più austeri, o più invidi.

      Turbato un tal poco da quegli atti curiosi e da quelle voci di meraviglia, il giovine affrettò il passo fin sopra la spianata; s'inoltrò sotto il pronao del tempio, che era sorretto da enormi tronchi di palma foggiati a colonne, ed oltrepassò il sacro limitare, fiancheggiato dai simbolici leoni di pietra.

      Colà, un più meraviglioso spettacolo si parò davanti agli occhi del giovine. Sulle prime, tra per la luce riflessa dalle lamine d'oro e d'argento, che correano alternate sull'alto delle pareti, e per la nube d'incenso che si diffondeva nell'ampio recinto, parve a lui d'essere, anzi che tra' mortali, nella regione dei sogni, in cui si pregustano le delizie celesti. Ma, a poco a poco, avvezzando lo sguardo a quella vaporosa veduta, egli potè discernere partitamente ogni cosa.

      La cella sacra, dov'egli avea posto piede, era un'ampia sala quadrilunga; conterminata da un'abside, su cui si levava la cupola, già veduta di fuori. Le mura tutto intorno apparivano ornate di stucchi, con iscrizioni e bassorilievi colorati, fino all'altezza degli stipiti di un gran numero di porte, le quali mettevano alle camere dei sacerdoti. Ai lati di queste grandeggiavano leoni e tori alati, dal volto umano, o dalla testa d'aquila, che parevano vegliare riverenti, a custodia delle mezze figure chiuse nel circolo eterno, con lunghe ali distese, emblemi della divinità suprema, i quali si vedeano scolpiti più in alto. E dove finivano le sculture e i dipinti, incominciavano i fregi di lamine d'oro, intelaiati a guisa d'arazzi nel vano di un finto colonnato d'argento, che saliva a sostenere un sopraccielo di legno prezioso, partito a cassettoni, con entro rosoni ed altre fogge di fantastici fiori, messi ad argento ed oro, siccome le colonne già dette. Nell'abside, sotto la cupola, sorgeva l'altare di Militta, masso di diaspro riquadrato e lucente, su cui s'innalzava il bianco simulacro della Dea, che poggia il piede sul domato leone, e reca tra mani il fiore della vita. Ai quattro angoli dell'altare, fumavano, entro bracieri sostenuti da tripodi di bronzo, i quattro aromi più grati agli abitatori del cielo; e d'ogni parte pendevano, in lungo ordine disposte, le lampade d'argento, donde i lucignoli di bisso attingevano l'olio fragrante, per dar luce e profumi all'intorno.

      E per mezzo a quella nube d'incenso che si diffondeva dall'abside, il principe vide uno stuolo di sacerdoti, i quali posavano dalle cerimonie e dai cantici, seduti su sgabelli d'ebano, il cui nero lucente faceva vieppiù risaltare la candidezza delle lunghe stole (il bianco era il color sacro a Militta) e degli ampii mantelli in cui ravvolgevano la persona. Il gran sacerdote si discerneva, tra gli altri, per la tunica sfoggiatamente trapunta e frangiata d'oro sui lembi, per l'aurea cintura tempestata di gemme e per l'aurea mitria foggiata a testa di pesce, la cui infula scendeva ad accappatoio sulle spalle, simulando le squamme dell'animale e la coda a due punte. Militta, non lo si dimentichi, era altresì Daokina, e la mitria del pesce dio, portata dai sacerdoti di Babilu, doveva coprire il capo ai ministri di ben altre divinità, posteriori nel tempo.

      Una