— Ah! — esclamò il nostro amico dopo qualche istante di mutua contemplazione agitando una mano verso Firenze; — ....seduttrice!
Poi mise un sospiro e mormorò:
— Addio, Firenze!
E scese ch’era buio fitto.
UNA DISTRIBUZIONE DI PREMI.
[Firenze, 15 giugno 1871.]
La mattina del 15 giugno 1871, nel chiostro grande di Santa Maria Novella, si fece la distribuzione solenne dei premi agli alunni delle scuole comunali.
Al vedere le carrozze e le persone che si affollavano nella piazza e in via della Scala verso le undici, nessuno, non sapendolo, avrebbe immaginato che un sì grande e frettoloso concorso fosse attirato da uno spettacolo, del quale erano attori principali dei fanciulli.
Ma vi sono molte cose da fanciulli che fanno palpitare il cuore degli uomini. E bastava il primo sguardo gettato intorno, entrando nel cortile del chiostro, per capire che la distribuzione dei premi sarebbe stata una di codeste cose.
Il cortile, vasto quant’una piazza, cinto intorno intorno di portici, dominato da un’ampia loggia da un lato, coperto tutto da una gran tenda, pareva insieme una sala e un giardino. Gli archi de’ portici, le colonne, le finestre erano fregiate di tende, di bandiere, di corone, di fronde d’alloro, di mazzi di fiori. Nel mezzo dell’un dei lati più brevi sorgeva un padiglione circondato di piante; a destra i banchi degli alunni da premiarsi; a sinistra i posti dei parenti loro; più giù, verso il mezzo del cortile, due palchi; l’uno per la banda musicale, l’altro per le sonatrici d’arpa destinate ad accompagnare il canto delle bambine; il restante spazio, coperto di lunghe panche, poste in modo che tutti rimanessero volti verso il padiglione dove il sindaco doveva chiamare gli alunni e dare i premi. Trenta antenne tenevan su la gran tenda che copriva il cortile, e dalla tenda e dalle antenne spenzolavano stendardi, orifiamme e ghirlande. Ogni cosa disposta e accomodata con una grazia semplice, propria dello spettacolo e degli attori; colori vivi e fragranze, piacere dei bambini; un luogo allegro e gentile.
Già prima d’entrare, s’ebbe uno spettacolo che predispose l’animo a quello più grandioso che si doveva veder poi. In via della Scala e per la strada che gira attorno alla stazione della strada ferrata, chi si fosse affacciato ai cancelli dei vari giardini attigui al chiostro, avrebbe visto qua e là, all’ombra degli alberi, folti e compatti, drappelli di bambine e di bambini immobili e silenziosi come battaglioni serrati in atto di aspettare il combattimento. Alle dieci e mezzo cominciarono a disporsi in due file, e a muovere dalle varie parti verso il cortile. Tutto era stato concertato a dovere, tutto riuscì appuntino.
Il bello fu vederli entrare. Dalle tre o quattro porte per cui comparvero, pareva come si fossero rotte le dighe di un torrente. Cominciarono a sfilare e non finivano più. Scuole elementari, scuole tecniche, licei, ginnasii, istituti privati; dopo due lunghe file di giovanetti impetuosi, spuntavano e venivano oltre adagio adagio, tenendosi per mano, e guardando attorno con certi visetti meravigliati, e mandando fuori un lungo oh, centinaia di creaturine che pareva stentassero a reggersi in piedi, e che bisognava tener pel braccio nell’atto che scendevano lo scalino del portico. Dopo questi, altri più grandi; dopo i grandi, le ragazze; dopo le ragazze, di nuovo quei cosini piccini, e via così. Poveri e signori, giacchettine eleganti e panni rappezzati, stivaletti lucidi e scarpuccie di vitello si succedevano, si accalcavano; qualche volta si trovavano ristrette in così piccolo spazio tutte codeste varietà, che con un abbraccio si sarebbe levato su un fascio di figli di marchesi, di bottegai e di braccianti, intrecciati come una manata di ciliegie. Ma in tutti, anche nei più poveri, appariva la traccia della mano materna; panni spelati dalla spazzola, nodi di cravattine fatti con garbo, capelli irsuti domati da un pettine pertinace.
Alle undici si cominciò ad abbracciare collo sguardo l’assieme dello spettacolo.
Era un colpo d’occhio incantevole. In mezzo tutti i ragazzi, — migliaia, — stretti, pigiati che pareva si toccassero colle teste, una gran folla di color oscuro. E tutt’intorno una corona sterminata di bimbe, vestite di chiaro, così che appariva netto il distacco fra loro e i fanciulli, fino ai punti più lontani, come fra un giro di pensieri e un giro di rose in un mazzo. Si vedevano, da un lato all’altro del cortile, in fondo in fondo, tutti quei vestitini bianchi, azzurri, gialli, rossi, e su quella striscia variopinta, un gran sventolío di nastri, di veli, di ventagli, un gran movimento di manine e di braccini, luccichío di vezzi, e tremolío di capigliature ricciute: pareva una siepe tutta fiorita quando il vento la scote. Il profumo sparso nell’aria pareva che venisse da loro, non dai fiori. E ci volle un pezzo prima che fossero tutte al posto. Fu un lungo tramestío, un saltellare di panca in panca, un va e vieni di maestre, un rimproverare a bassa voce, un obbedire ridendo e nascondendosi il viso. E intorno al palco della musica un grande affaccendarsi per disporre le cantatrici, un chiamare e uno spingere di qua e di là. — Qua i contralti! — Avanti i contralti! — Di qua i soprani! — Di là gli a solo! — E tutte rispondere e farsi strada a fatica, ansanti, coi visi accesi, cinguettando come uno stormo di uccelli. Quanta vita e quanta gioia!
Non parlo del pubblico; nel cortile, sotto il portico, sulla loggia, per tutto c’era gente. Sotto il padiglione un gruppo di personaggi illustri, che nessuno, davanti a quello stupendo spettacolo di bambini, aveva tempo di guardare. I premiandi, seduti a sinistra del padiglione, si conoscevano dal viso; dal viso pure i parenti, ch’erano dal lato opposto. E fra gli uni e gli altri era un cercarsi cogli occhi, un accennarsi, un sorridere, e ad ogni ordine od atto del sindaco, o di chi altri, che annunziasse l’avvicinarsi dell’ora fissata, uno scambio più vivo di sguardi, come per farsi coraggio a vicenda, e dirsi l’un l’altro: — Ci siamo! — Beati istanti, davvero; e commovente la vista di quei parenti, gente d’ogni ceto, ricchi e poveri, affratellati in un sentimento di letizia comune.
Uno scoppio fragoroso d’applausi annunziò che la funzione stava per cominciare: erano migliaia di bambini che salutavano il sindaco, mentre passava a veder se ogni cosa era in pronto.
La banda della guardia nazionale suonò una sinfonia.
Finita la sinfonia, tutti tacquero, e il sindaco Peruzzi, salito sul palco del padiglione, pronunciò ad alta voce il seguente
DISCORSO.
«Nel contemplare, o signori, lo spettacolo di questo vasto recinto, ove attorno a migliaia di giovanetti stanno migliaia di cittadini, niuno vi ha che non senta come sia veramente popolare questa festa dell’adolescenza e della fanciullezza. Nè ciò farà meraviglia a chi voglia considerare come in tutti i tempi sieno state popolari le feste meglio rispondenti ai bisogni, agli affetti, ai desiderii dei popoli. I popoli, pei quali era condizione di esistenza vincere gli altri in forza ed in destrezza, traevano affollati e festanti ad incoronare i vincitori nelle lotte e nei giuochi dell’ippodromo e del circo.
»Oggi invece che i popoli tanto più valgono quanto più sanno, oggi che le sorti della patria sono affidate ad istituzioni feconde soltanto se adoperate con saggezza