Dopo un breve giro riuscimmo nella piazza principale, anzi unica, di Tangeri, la quale è tagliata da una lunga strada che salendo dalla parte della marina attraversa tutta la città. È una piazzetta rettangolare, circondata di botteguccie arabe, che parrebbero meschine nel più povero dei nostri villaggi. Da un lato v’è una fontana sempre circondata d’arabi e di neri affaccendati ad attinger acqua con otri e brocche; da un altro lato stanno tutto il giorno sedute in terra otto o dieci donne col viso imbacuccato, che vendon pane. Intorno a questa piazza ci sono le modestissime case delle Legazioni straniere che s’innalzano come palazzi in mezzo alla moltitudine confusa delle casette moresche. In questo piccolo spazio si concentra tutta la vita di Tangeri, che è la vita d’un villaggio. V’è là vicino il solo tabaccaio della città, la sola spezieria, il solo caffè, che è una stanzaccia con un biliardo, e la sola cantonata dove si veda qualche volta qualche annunzio stampato. Là si raccolgono i monelli seminudi, i ricchi mori sfaccendati, gli ebrei che parlano d’affari, i facchini arabi che aspettano l’arrivo del piroscafo, gl’impiegati delle Legazioni che aspettano l’ora del desinare, gli stranieri appena arrivati, gl’interpreti, gli accattoni. Là s’incontra il corriere che arriva cogli ordini del sultano da Fez, da Mechinez o da Marocco, e il servitore che vien dalla posta coi giornali di Londra e di Parigi; la bella dell’arem e la moglie del ministro; il cammello del beduino e il cagnolino da salotto; il turbante e il cappello cilindrico; l’onda sonora del pianoforte che erompe dalle finestre d’un Consolato e la cantilena lamentevole che esce dalla porta della moschea. Ed è il punto dove l’ultimo flutto della civiltà europea s’infrange e ristagna nell’immensa acqua morta della barbarie affricana.
Dalla piazza, rimontando la strada principale, e passando per due vecchie porte, uscimmo, che cominciava a imbrunire, dalle mura della città, e ci trovammo in una piazza aperta sul fianco d’una collina, chiamata Soc de Barra, o mercato esteriore, poichè ogni domenica e ogni giovedì vi si fa il mercato. È forse di tutti i luoghi ch’io vidi nel Marocco, quello che mi fece sentire più profondamente il carattere del paese. È un tratto di terreno nudo, tutto gobbe e incavature, colla tomba d’un santo, formata da quattro muri bianchi, a mezza china; sulla sommità un cimitero; più lontano qualche aloè e qualche fico d’india; sotto, le mura merlate della città. In quel momento, vicino alla porta v’era un gruppo di donne arabe, sedute in terra, con mucchi d’erbaggi dinanzi; accanto alla tomba del santo una lunga fila di cammelli accosciati; più su, alcune tende nerastre e un cerchio d’arabi attoniti, seduti intorno a un vecchio, in piedi, che raccontava una storia; qua e là, vacche e cavalli; e sulla sommità, fra le pietre e i monticelli di terra del cimitero, altri arabi immobili come statue, col viso rivolto verso la città, tutta la persona nell’ombra, e le punte dei cappucci che spiccavano sull’orizzonte dorato dal crepuscolo. Su tutta questa scena una pace di colori, un silenzio, una mestizia, da non potersi efficacemente descrivere a voce, se non stillando parola per parola nell’orecchio di chi ascolta, come quando si confida un segreto.
La guida mi svegliò dalla mia contemplazione e mi ricondusse all’albergo, dove il mio dispiacere di trovarmi in mezzo a gente sconosciuta fu per la prima volta mitigato dal fatto ch’eran tutti Europei, cristiani e vestiti come me. V’erano a tavola una ventina di persone, tra uomini e signore, di nazione diversa, che offrivano una bella immagine di quello strano incrociamento di famiglie e d’interessi che segue in quei paesi: un francese nato in Algeri, marito d’un’inglese di Gibilterra; uno spagnuolo di Gibilterra, marito della sorella d’un console portoghese della costa dell’Atlantico; un vecchio inglese con una figliuola nativa di Tangeri e una nipotina nativa d’Algeria; famiglie erranti da un continente all’altro, o sparpagliate sulle due coste, che parlano cinque lingue, e vivono metà all’araba e metà all’europea. Appena cominciato il desinare, cominciò una conversazione vivissima, ora in francese, ora in spagnuolo, tempestata di parole arabe, sopra soggetti affatto estranei alla consuetudine delle conversazioni europee: come il prezzo d’un cammello, lo stipendio d’un Pascià, se il Sultano fosse bianco o mulatto, se era vero che fossero state portate a Fez dieci teste di rivoltosi della provincia di Garet, quando sarebbero arrivati a Tangeri quei religiosi fanatici che mangiano i montoni vivi, ed altre cose di questo genere, che mi facevano saltellare dentro all’anima il diavolo della curiosità. Poi vennero a parlare di politica europea con quel non so che di scucito che c’è sempre nei discorsi di gente di vario paese, e quelle solite gran frasi vuote con cui si parla d’una politica lontana, fantasticando alleanze spropositate e guerre favolose. E poi il discorso cadde su Gibilterra, argomento inevitabile; la gran Gibilterra, il centro d’attrazione di tutti gli Europei della costa, dove si mandano i figliuoli a studiare, dove si va a comprare il vestito, a ordinare un mobile, a sentire l’opera in musica, a respirare una boccata d’aria d’Europa. E finalmente venne in campo la partenza dell’ambasciata italiana per Fez, ed io ebbi il grandissimo piacere di sentire che l’avvenimento era assai più importante di quel che credevo, che se ne parlava in tutta Tangeri e in tutta Gibilterra e ad Algesira e a Cadice e a Malaga, e che la carovana sarebbe stata lunga un miglio, e che coll’ambasciata c’erano dei pittori italiani, e che forse ci sarebbe stato perfino un representante de la prensa. Alla quale notizia mi alzai modestamente da tavola e mi allontanai con passo maestoso.
Più tardi, a notte inoltrata, volli fare un altro giro per veder Tangeri addormentata. Non v’era un lampione, non una finestra illuminata, non uno spiraglio da cui trapelasse un barlume; la città pareva disabitata e non riceveva altra luce che quella del cielo stellato, sul quale biancheggiavano, come enormi tombe di marmo, le case più alte, e si disegnavano nitidamente le cime dei minareti e i rami delle palme. Andai sino in fondo alla strada principale: le porte della città erano chiuse. Girai per altre vie: tutto chiuso, immobile, muto. Due o tre volte inciampai in qualchecosa che a primo aspetto mi parve un mucchio di cenci, ed era un arabo addormentato. Sentii più volte, con raccapriccio, scricchiolare sotto il mio piede penne ed ossami, o cedere mollemente qualcosa che doveva essere la carogna d’un cane. Mi passò accanto, rasente il muro, come uno spettro, un arabo incappato; ne vidi un altro biancheggiare un momento in fondo a un vicolo; e a una svoltata sentii, senza veder nulla, un fruscìo affrettato di pantofole e di cappe, che mi fece sospettare d’aver turbato un conciliabolo. Andando, non sentivo che il rumore del mio passo; fermandomi, non sentivo che il mio respiro. Mi pareva che tutta la vita di Tangeri si fosse ridotta in me solo, e che se avessi gettato un grido, sarebbe risonato da un capo all’altro della città come uno scoppio di tuono. Pensavo alle tante belle arabe addormentate, alle quali passavo vicino, e agli strani misteri che avrei scoperti, se quelle case si fossero aperte tutt’a un tratto come una scena di teatro. Di quando in quando mi fermavo dinanzi alla splendida bianchezza di certi spazi di muro, su cui batteva la luna, che parevano illuminati dalla luce elettrica. In un vicolo oscuro incontrai un nero con una lanterna, che si fermò per lasciarmi passare, mormorando qualche parola che non compresi. Nel punto che sboccavo nella piazzetta, sentii sonare in quel profondo silenzio una risata sgangherata, che mi diede i brividi. Erano due giovanotti col cappello cilindrico, probabilmente due impiegati di Legazione, che passeggiavano discorrendo. In un angolo della piazza, sotto la tenda d’una bottega chiusa, un lumicino moribondo rischiarava confusamente un ammasso di cenci biancastri, da cui usciva un suono leggerissimo di chitarra e un filo di voce tremola e lamentevole, che pareva portata dal vento da una gran lontananza. Io stetti là immobile, sognando piuttosto che pensando, fin che i due giovani sparirono e il lumicino si spense, e allora tornai all’albergo, stanco, sbalordito, coll’imaginazione in tumulto, e con un sentimento nuovo e stranamente confuso di me medesimo, come ho più volte pensato che dovrebbe essere quello d’un uomo trasportato dalla terra in un altro pianeta.
La mattina dopo uscii per andarmi a presentare al nostro incaricato d’affari, Comm. Stefano Scovasso. Egli non avrebbe potuto dirmi che non ero puntuale al convegno. Il giorno otto d’aprile, a Torino, avevo ricevuto l’invito, coll’annunzio che la carovana sarebbe partita da Tangeri il giorno diciannove: la mattina del diciotto mi trovavo alla porta della Legazione. Non conoscevo di persona il Comm. Scovasso; ma sapevo di lui qualche cosa, che mi dava una gran curiosità di conoscerlo. Di due suoi amici che avevo interrogati prima di partire, uno m’aveva assicurato ch’era un uomo capace d’andare a cavallo da Tangeri a Tumbuctù, senz’altra