Marocco. Edmondo De Amicis. Читать онлайн. Newlib. NEWLIB.NET

Автор: Edmondo De Amicis
Издательство: Bookwire
Серия:
Жанр произведения: Книги о Путешествиях
Год издания: 0
isbn: 4064066071943
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mostrò così agli spettatori più vicini, perchè osservassero i denti; osservazione affatto superflua, se pure la sostanza venefica rimaneva, perchè non v’era stata morsicatura. Dopo ciò afferrò il serpente con due mani, si mise la coda in bocca e cominciò a menar le mandibole: la bestia si scontorceva furiosamente; io me n’andai inorridito.

      In quel momento comparve nel Soc il nostro Incaricato d’affari. Lo vide dall’alto della collina il vice-governatore, gli corse incontro, e lo condusse sotto la sua tenda, dove si radunarono tutti i membri della futura carovana, io compreso. Allora accorsero suonatori e soldati, si formò un grandissimo semicerchio di arabi davanti all’apertura della tenda, gli uomini dinanzi, il sesso gentile, a gruppi, di dietro; e cominciò un concerto indiavolato di danze, di canti, di grida, di fucilate, che durò più di un’ora, in mezzo a un denso nuvolo di fumo, al suono d’una musica spietata, fra gli strilli entusiastici delle donne e dei bambini, con paterna soddisfazione del vice-governatore e nostro vivo piacere. Prima che finissero, l’Incaricato d’affari mise qualchecosa di giallo nelle mani d’un soldato arabo, perchè lo portasse a chi aveva diretto lo spettacolo. Il soldato tornò poco dopo e riferì, tradotto in spagnuolo, il curioso ringraziamento del beneficato:—L’ambasciatore d’Italia ha fatto una buona azione; Allà benedica tutti i peli della sua barba!

      La feste durò fino al tramonto. Strana festa! Tre venditori d’acqua pura bastavano a soddisfare i bisogni di tutta quella folla immobile per una mezza giornata sotto i raggi del sole d’Affrica. Un marengo era forse il massimo del denaro messo in giro da quello straordinario concorso di gente. I soli piaceri erano vedere ed udire. Non uno scandalo amoroso, nè un ubbriaco, nè una coltellata! Nulla di comune colle feste popolari dei paesi civili.

      Oltre a godere di tutti questi spettacoli, facevamo, io e i miei futuri compagni di viaggio, delle frequenti passeggiate nella campagna di Tangeri, che non è meno curiosa a vedersi che la città. Intorno alle mura si stende una cintura di giardini e di orti appartenenti la maggior parte ai ministri e ai consoli, quasi tutti trasandati; ma coperti d’una vegetazione meravigliosa. Sono lunghe file di aloè, simili a lancie gigantesche confitte in mezzo a un fascio di enormi daghe ricurve, poichè tale è la forma delle loro foglie; la punta delle quali è usata dagli arabi, colla fibra della foglia medesima, a cucire le ferite. Sono fichi d’India, kermus del Inde, come si chiamano in lingua moresca, altissimi, di foglie spesse un pollice, che sporgono sui sentieri fin quasi a impedire il passo; fichi comuni, all’ombra dei quali si potrebbero rizzare dieci tende; quercie, acacie, leandri, arbusti d’ogni forma, che intrecciano i loro rami coi rami degli alberi più alti, e formano coll’edera, le viti, le canne, le siepi, degli ammassi inestricabili di verzura, sotto i quali spariscono fossi e sentieri. In molti luoghi bisogna camminare a tentoni. Si passa da un podere all’altro a traverso le siepi sforacchiate o sopra le cancellate abbattute, in mezzo all’erbe e ai fiori che s’alzano fino alla cintura d’un uomo; e non si vede nessuno. Qualche casetta bianca, mezzo nascosta fra gli alberi, e qualche pozzo a ruota, dal quale, per mezzo di canaletti incrociati, si spande l’acqua per le terre, sono le sole cose che diano indizio di proprietà e di lavoro. Molte volte, se non fosse stato con me il capitano dello stato maggiore, che è una guida abilissima, mi sarei smarrito in mezzo a quella vegetazione scompigliata; e infatti ci occorreva spesso di chiamarci l’un l’altro, come in un labirinto, per non perderci di vista, e godevamo a tuffarci, a nuotare in quell’immenso verde, ad aprirci la via colle mani, coi piedi e colla testa, coll’allegra furia di selvaggi tornati dalla schiavitù alle loro foreste.

      Di là da questa cintura di orti e di giardini, non si trovano più nè alberi, nè case, nè siepi, nè alcun indizio di divisione della campagna. Sono colline, vallette verdi e piani ondulati dove pascola qualche raro armento, di cui non si vede il guardiano, e galoppa qualche cavallo sciolto. Una volta sola mi ricordo d’aver visto lavorare la terra. Un arabo stimolava un asino e una capra attaccati a un aratro piccolissimo, di forma bizzarra, costrutto forse come s’usavano quattromil’anni fa; il quale scavava un solco appena visibile in un terreno sparso di sassi e d’erbaccie. Qualcuno mi assicurò d’aver visto più d’una volta attaccato all’aratro un asino e una donna, e questo può dare un’idea dello stato dell’agricoltura nel Marocco. Il solo concime col quale governan la terra è la cenere della paglia che bruciano dopo il raccolto; e la sola cura usata per non stancarne la fecondità è di lasciarvi crescere l’erba per i pascoli il terz’anno, dopo avervi seminato grano e saggina nei primi due. Malgrado questo, la terra s’impoverisce dopo pochi raccolti, e allora i campagnuoli erranti vanno a dissodare nuovi terreni, che abbandonano poi alla loro volta per ritornare agli antichi; e così non è mai coltivata simultaneamente che una piccolissima parte delle terre arabili; di quelle terre che, anche mal coltivate, riportano cento volte la semenza che vi si sparge.

      La più bella passeggiata fu quella al capo Spartel, l’Ampelusium degli antichi, che forma l’estremità nord-ovest del continente africano: un monte di pietra bigia, alto trecento metri, tagliato a picco sul mare, e aperto sotto, sin da tempi antichi, in vaste caverne, la maggiore delle quali era consacrata ad Ercole: specus Herculi sacer. Sulla sommità di questo monte si alza il faro famoso, eretto da pochi anni, e mantenuto con una espressa contribuzione dalla maggior parte degli Stati d’Europa. Salimmo sulla cima della torre, fin dentro alla grande lanterna, che manda il suo all’erta luminoso alla distanza di venticinque miglia. Di lassù l’occhio spazia su due mari e due continenti. Si vedono le ultime acque del Mediterraneo, e l’immenso orizzonte dell’Atlantico, il mare delle tenebre, Bar-ed-Dolma, come lo chiamano gli arabi, che flagella i piedi della roccia. Si vede la costa spagnuola dal capo Trafalgar fino al capo d’Algesira; la costa africana del Mediterraneo fino alle montagne di Ceuta, i septem fratres dei Romani; e lontano, vagamente, lo scoglio enorme di Gibilterra, la sentinella eterna di questa porta del vecchio continente, termine misterioso del mondo antico, diventato Favola vile ai naviganti industri.

      In queste passeggiate non incontravamo che pochissima gente: per lo più arabi a piedi, che ci passavano accanto senza quasi guardarci, e qualchevolta un moro a cavallo, che doveva essere un personaggio importante o per denaro o per carica, accompagnato da un drappello di servi armati, il quale, passando, ci lanciava uno sguardo sprezzante. Le donne s’imbacuccavano con maggior cura che in città, alcune brontolando, altre voltandoci bruscamente le spalle. Qualche arabo, invece, ci si fermava dinanzi, ci guardava fisso, mormorava alcune parole quasi in tuono di chi domanda un favore e poi tirava innanzi senza voltarsi. Da principio non capivamo che cosa volessero dire. Ci fu poi spiegato che ci pregavano di domandare a Dio una grazia per loro. È una superstizione molto sparsa fra gli arabi che la preghiera dei mussulmani essendo graditissima a Dio, egli suol tardare lungamente ad accordare le grazie che gli domandano, per godere più a lungo il piacere di sentirsi pregare; mentre la preghiera d’un infedele, d’un cane, come un cristiano od un ebreo, gli è tanto molesta, che per liberarsene, l’esaudisce ipso facto. Le sole faccie amiche che incontrassimo erano i ragazzi ebrei, che giravano a drappelli, a cavallo agli asini, di collina in collina, e ci gettavano un allegro: Buenos dias, caballeros! passandoci accanto di galoppo.

      Malgrado però la vita varia e nuova che menavamo a Tangeri, s’era tutti impazienti di partire, per poter essere di ritorno nel mese di Giugno, prima dei grandi calori. L’Incaricato d’affari aveva mandato un corriere a Fez ad annunziare che l’ambasciata era pronta; ma dovevano passare almeno dieci giorni prima che fosse di ritorno. Notizie private dicevano che la scorta era in viaggio; altre che non era ancora partita; eran tutte voci incerte e contraddittorie, come se quella Fez sospirata non fosse a duecento venti chilometri, ma a duemila miglia dalla costa. E questo, da un lato, ci piaceva, perchè quella passeggiata di quindici giorni prendeva così, nella nostra immaginazione, l’apparenza d’un lungo viaggio, e Fez l’attrattiva d’una città misteriosa. Al quale effetto servivano pure le strane cose che ci dicevano di quella città, del suo popolo e dei pericoli del viaggio, coloro che v’erano stati con altre ambasciate. Ci dicevano che erano stati circondati da migliaia di cavalieri, i quali li salutavano con una tempesta di fucilate a bruciapelo, a rischio d’accecarli; che s’erano sentiti fischiar le palle all’orecchio; che a noi italiani assai più probabilmente sarebbe toccata nel capo, per sbaglio, qualche oncia di piombo, diretta alla croce bianca della bandiera, la quale parrebbe agli arabi un insulto a Maometto. Ci parlavano di scorpioni, di serpenti, di tarantole,