Nè io mi lagnerei di cotesto, se cogli italiani si adoperasse del pari. Ma di questi, o per noncuranza, o per deliberato proposito, si tace. Gran mercè quando s'è amici: imperocchè il giornale tira giù quattro righe, ma senza ombra di pensamento, senza lume di critica, così alla dozzinale, come si va scodellando la minestra ai poveri sulla porta dei conventi: ed allora, la è grazia profumata. Donde avviene che ogni lettore italiano sa il nome, non pure dei quattro o cinque luminari della scienza_ _e dell'arte forastiera, ma eziandio delle costellazioni minori, e financo delle nebulose; ma nulla, o quasi, degli autori nostrani, e il milanese non ha notizia del napoletano, nè il fiorentino del torinese. Quel po' di notorietà che si spande, dopo lungo anfanare, tra letterati, è un semenzaio di pettegolezzi, una società di mutua denigrazione.
A tali distrette è la letteratura italiana! E se non facciamo ancora uno sciopero (che forse sarebbe il meglio, e nessun compratore della nostra derrata se ne recherebbe più che tanto) rimanghiamo tuttavia i più gran scioperati del mondo, e quando lavoriamo, c'è nell'opera nostra la svogliatezza di chi lavora senza mercede; non c'è ordine, non comunanza di propositi, non cospirazione di intendimenti. Siamo una dozzina di scuole, che tutte si adoperano alla spartita, che tutte cominciano dal loro abbicì, e non riescono a capolavori.
E avanti così, poichè così vuole la nostra fiacchezza. Uno si ferma disanimato a mezza strada, e ripiglia l'avvocatura; l'altro s'agguata ad una cattedra, contento di marcirvi; un altro muore d'inedia. Povera arte, povera scienza, fino a tanto che nessuno si capaciti della necessità d'un rimedio…..
Ella ora, gentile amico, condoni la tantaféra, ed ami il suo
Di Genova, il 26 maggio 1867._
ANTON GIULIO BARRILI.
[1] Questo, ed altre cose che seguono, non sono più vere per me, siccome dimostra il fatto della presente edizione, che è la seconda del libro, e potrebbe dirsi più ragionevolmente la prima; tanto l'antecedente fu ristretta per numero di copie, e soffocata per angustia di mercato. Amo cionondimeno lasciarle correre, come furono scritte dapprima, per non avere a ritoccare la dedicatoria, nella quale v'hanno, io mi penso, considerazioni giustissime intorno alle grame condizioni della vita letteraria italiana. E prego il cortese editore a lasciarle correre del pari, rammentando che repetita juvant, e per molti rispetti, se non per tutti, verranno a taglio anche adesso.
Aprile, 1869
A. G. B.
L'OLMO E L'EDERA
I.
Racconto una storia vera, giusta il mio costume, che dovrebb'essere di tutti coloro i quali non sono molto esercitati nell'arte del novelliere. Facile è lo inventare, e ci si mette quanto a dir male del prossimo; difficilissimo, poi, dare alle sue invenzioni la evidenza del vero, lumeggiarle con quei tocchi di pennello che le fanno balzar quasi dalla tela. I fatti, per tal guisa affastellati, si tengono ritti per miracolo; i caratteri, dipinti di maniera, non istanno nè in riga nè in spazio; gli è insomma un guazzabuglio, il quale non mette nulla in rilievo, nulla, se non forse la tracotanza dell'autore.
Io, digiuno di studi, e non rallegrato che da una scarsa vena di fantasia, ho pigliato da un amico il savio consiglio di non dipingere mai, se non quello che ho veduto; di non scrivere se non quello che m'è rimasto impresso nella memoria, de' casi miei, o degli altrui. E qui mi soccorre eziandio l'autorità di un grande scrittore, il quale ebbe a dire come inventare non fosse poi altro che ricordarsi. Ma egli dovette pure ricordarsi di grandi cose, poichè ne inventò di così svariate e mirabili; laddove io, uomo di corta memoria, non vi dirò che una storia semplicissima, che mi parrà molto se starete a leggerla, senza badare a chi scrisse.
Siamo dunque intesi; varietà poca, o nissuna; ma verità da capo a fondo. E cotesto non dico per accattar fede al racconto, il quale, del resto, è fatto col debito riserbo, con nomi mutati e prudenti contraffazioni; sibbene (e vo' dirlo candidamente) per farmi benevola quella parte di gentili lettori, i quali pigliano maggior gusto alla narrazione di cose che sanno essere un giorno accadute.
Ora, narrando a memoria, debbo lasciare in bianco l'anno e il mese da cui la mia storia incomincia. Ma se il lettore genovese ricorda in che stagione si rappresentasse sulle scene del teatro Carlo Felice, e per la prima volta, il Ballo in Maschera del maestro Verdi, egli può scrivervi di suo pugno la data.
Era per l'appunto in quell'anno e in quella stagione; sulle scene del teatro Carlo Felice si rappresentava, non so se per la decima o per l'undicesima sera il Ballo in Maschera, e non c'era più in platea quella frequenza di spettatori che è (salvo il diverso giudizio degli impresari) il malanno delle prime rappresentazioni.
Scemata la calca, il teatro diventa, per così dire, una famiglia; rimangono i consueti frequentatori, che si conoscono tutti tra loro; si gira liberamente da un capo all'altro dell'emiciclo, dando un saluto a diritta, una stretta di mano a sinistra, appuntando il canocchiale sulla mostra di avorii molli che fa la marchesa Collalto, sui diamanti della signora Vallechiara, sugli occhi della signorina Morati che brillano assai più dei diamanti e, a parer mio, valgono anche di più; si naviga insomma con placido remeggio in un lago di cui si vedono d'ogni parte le sponde, di cui si conosce ogni promontorio, ogni golfo, e sto per dire ogni seno.
Quella sera, adunque, nel secondo intermezzo dello spettacolo, ero andato a piantarmi comodamente, e senza paura di gomitate, contro la parete circolare della platea, e là, fantasticando non so che cosa, volgevo sbadatamente le lenti del binoccolo su questo e su quello dei palchetti di seconda fila. Ma siccome non c'è viaggio che non abbia la sua stazione, anche il mio binoccolo fece sosta, e lunga sosta, al palchetto della marchesa Bianca di Roccanera, quella meravigliosa bruna, che parecchi de' miei lettori rammentano di certo, dalla persona snella, dal portamento di ninfa, celebrata pel ricco volume dei neri capegli, attorcigliati con leggiadra negligenza là dove il conte Ugolino amava mettere i denti all'arcivescovo Ruggieri, e ricadenti sul collo in due larghe ciocche crespate, che le davano un'aria (ma intendiamoci bene, un'aria!) di malinconia incantevole.
La marchesa Bianca ci aveva un'altra aria eziandio, che non s'ha a dimenticare in un ritratto come questo. Sebbene ella avesse già varcato i venticinque, e i suoi occhi, quando a caso si posavano su qualcheduno, avessero virtù di trapassargli il cuore e lasciar nella ferita l'impressione gelida dello strumento omicida, la ci avea pure un non so che di vergineo, anzi d'infantile a dirittura, che traspariva da tutti i suoi modi, e guai a chi ci si fosse lasciato cogliere; imperocchè quel candore, se non era artificiale, era pur tuttavia il più pericoloso di tutti gli artifizi, come quello che era in lei un retaggio della natura, una forma, un'apparenza, una lusinga di più, della quale essa era come inconsapevole, ma che, anco inconsciamente, le serviva per tirarle ai piedi quegl'incauti, che poi dovevano morire assiderati sulla soglia del santuario, sempre chiuso com'era.
Io ho parlato colla marchesa Bianca due volte appena, in tutto quel tempo ch'ella stette a Genova, ma tuttedue le volte in carnevale, colla maschera sul volto. L'incantesimo di quella sua meravigliosa bellezza o di quel candore vergineo fu tale, che la paura soverchiò la fidanza, e cansai sempre le occasioni di esserle presentato. Dell'anima mia nel mondo di là non so che debba accadere; ma se l'inferno c'è, non voglio cominciare a provarlo nel mondo di qui; però, dopo averne saggiato una volta, temporibus illis, fuggo le pene dello spirito come il diascolo l'acqua santa. Egli c'è a questo proposito un adagio, triviale se volete, ma calzante: «il cane non torna dove fu bastonato.»
La marchesa Bianca sembrava non saper nulla della sua tentatrice bellezza, o, se ella lo sapeva, le doveva parere la cosa più naturale del mondo; donde avveniva che non ne facesse pompa. Ma ogni