Intanto i provvedimenti del Governo parevano scarsi ed erano; la fiducia del Ministero nella vittoria, giovanile jattanza; la sfida di guerreggiare una Potenza famosa in armi, e pertinace nei propositi, con sassi e bastoni, fanciullesco vanto. Le armi promettevansi prima senza prefiggimento di tempo, poi a giorno designato e le promesse riuscivano invano; sicchè alla impazienza si aggiungeva il sospetto, al sospetto il furore, e rendevano procellosi tempi già abbastanza turbati. Sopra la fede di commissioni date e di solleciti arrivi, il Generale Sproni livornese, governatore provvisorio di Livorno, e Celso Marzucchi, assessore, promisero le armi a posta fissa più volte, e più volte, loro malgrado, mancarono. Il Popolo notte tempo circonda il Palazzo del Governo, e prorompe in contumelie bruttissime, e in minaccie: tentano ogni via per placarlo, ma il furore vince ogni riguardo; già molto era cotesto, e si temeva peggio: fatto sta, che il Popolo, occupate le porte, impediva la uscita. In tale estremo, o interrogato o spontaneo, chè io non so questo, il Popolo domanda una Commissione di cittadini, affinchè esamini se le incette delle armi sieno vere, ed essendo, ne solleciti lo invio; il conte Larderel, me, ed altri parecchi nominano membri di cotesta Commissione; se il Governo locale assentisse in quel punto ignoro, — chè io stavo giacente in letto per abituale infermità intestinale, inaspritasi, come suole, nella rigida stagione; — quello che so, è, che il Popolo impetuoso mosse in traccia del conte e di me. Percossa duramente la porta, e referitomi quello che da me si volesse, sorgo tosto in piedi, mi getto addosso una pelle, e mi sottraggo per le scale segrete; il Popolo ricusando fede ai servi, che mi dicevano assente, invade la casa, e fruga camere e sale; parte del Popolo stanziava giù nel cortile, sicchè a me era preclusa la via di uscire, nè la condizione delle vesti lo consentiva. Vedendo che il Popolo non se ne andava, e incominciando a travagliarmi il freddo, deliberai tornare in casa, dove arrivato domandai che cosa volessero da me; e uditolo, significai ai circostanti apertamente: la mia salute inferma non concedermi poterli soddisfare; e schivo
Автор: | Francesco Domenico Guerrazzi |
Издательство: | Bookwire |
Серия: | |
Жанр произведения: | Языкознание |
Год издания: | 0 |
isbn: | 4064066088026 |
a cui nuocciono pur troppo; questi io gli ho provati senza coscienza, come senza pietà. I generosi, comunque nemici; si rendono giustizia, ed anche questi ho provato. Nella esposizione di questa quinta piaga mi studierò non offendere persona: comprendo sarebbe stato meglio tacere; e che così credessi, lo provi avere taciuto fin qui; ma adesso il silenzio non giova più, dacchè l'Accusa pubblicava la storia da me scritta dei casi dell'8 gennaio 1848, e da me per amore di patria lasciata inedita. L'Accusa non ha voluto rispettare nemmeno il sacrifizio del mio silenzio! Uscito dal carcere di Portoferraio (il quale duole a taluno dei benevoli scrittori ricordati qui sopra che non fosse più lungo), attesi allo esercizio della mia professione con assiduità maggiore di quello che avessi fatto fino a quel punto, inducendomi a prendere questo partito lo abbandono degli amici, l'amara povertà, e poco dopo il retaggio dei miei orfani nepoti. Dio eterno! Parevami questo esercizio di virtù; e nonostante a coro sento attribuirmelo a vizio di cupidigia, di avarizia, e ad altro peggiore. E bene m'incolse essermi armato di provvidenza, perchè una angosciosa infermità mi sorprese, tenendomi travagliato, ora più, ora meno, per bene tre anni. Schivo di compagnia, chiuso, ai miei studii tutto, pervenni al 1847. In cotesto anno principiarono le Riforme, e i moti delle Riforme; vedeva i successi, e tacito considerava; non era cercato, e mi stava da parte. Allo improvviso gli emuli miei (e poi furono nemici), che fin lì avevano posto una tal quale ostentazione ad obliarmi, ecco cercarmi premurosi, e volere anzi costringermi che seco loro mi accompagnassi. Biasimo o laude che ne ridondi, questo s'intenda bene, e si riponga in mente, che altri, non io, anzi me inconsapevole e repugnante, prese ad agitare il Popolo livornese; e le prove abbondano più che non si crede, e le direi se una cosa sola non si opponesse, ed è l'alto, invincibile aborrimento che sente in sè ogni anima, che non sia fango affatto, di adoperare anche a necessaria difesa le arti usate dagli emuli miei per offesa spontanea. — Che cosa gli muovesse, e perchè? Poco importa indagarlo; il fatto sta che vennero in casa mia, mi obbligarono a vestirmi, mi presero per le braccia e pel petto, e a forza mi trassero ad arringare il Popolo nella Piazza di Arme, a forza mi trassero a Pisa. Passate le prime effervescenze, pensai, e scrissi quello di cui tenni proposito nella pagina 21 di questa Apologia. Intanto fu chiesta la Guardia Civica a Firenze, e Guardia Civica si volle immediatamente a Livorno. Mi sia permesso dirlo: il modo col quale essa venne composta in Livorno seminò la discordia nel Popolo, e fu origine di tutti i mali. Alcuni individui, certamente rispettabili, ma allora per inesperienza più che non conviene in simili congiunture imperiosi, stesero una nota di loro amici, o aderenti, disegnarono i gradi, distribuirono gli ufficii; poi recatisi al Governatore Don Neri Corsini, la fecero firmare; il Gonfaloniere Conte de Larderel costrinsero (secondo ch'egli stesso mi referì) a sottoscriverla senza pur leggerla. Di qui nacque che la Guardia Civica in Livorno sorse opera non dirò di un Partito, ma piuttosto di una consorteria, ed anzichè istrumento di concordia fosse motivo d'ingiuria da un lato, di offesa dall'altro, di litigio per tutti. Chiunque più tardi (non ora che la rabbia di parte non lo consente) si farà a dettare storie meritevoli della dignità del nome, troverà come il modo della istituzione della Guardia Civica in Livorno partorisse guai, che altri va stortamente attribuendo a cause diverse. — Ora avvenne che il Popolo escluso dalla Guardia concepisse maraviglioso rammarico, e togliendo pretesto dalla guerra imminente si facesse a domandare armi. Qui è da sapersi come parecchi cittadini, e della Guardia Civica la massima parte, opinassero dovesse il Popolo contentarsi delle ottenute Riforme, e della guerra avesse a deporre il pensiero; opinione, che, a quanto sembra, seguitò poi il conte Pellegrino Rossi, e come ottima viene in questi ultimi tempi sostenuta dal Cousin: altri all'opposto dichiaravano insufficienti le Riforme, inevitabile la guerra; e consigliare prudenza che le prime si estendessero con animo spontaneo fin dove pareva convenevole, ovviando al pericolo che il Popolo si spingesse a quel termine, e nell'impeto sregolato lo trapassasse, e alla seconda si facessero per tempo gli opportuni apparecchi. Devo per verità confessare come taluno dei Civici che procedeva allora schivo d'ingaggiare la guerra, fosse poi dei meglio animosi a combatterla, e per sagrificii di ogni maniera sofferti, e pel valore singolare dimostrato su i campi di battaglia, non si mostrasse a nessuno dei commilitoni toscani secondo. Al Governo si paravano davanti due strade: la prima consisteva nel negare le armi risolutamente, dicendo: «Le armi si domandano e si danno per due motivi, per la difesa interna od esterna dello Stato. In quanto allo interno non ci minaccia alcuno; moti contrarii alle Riforme non sono a temersi; coazioni al Governo, oltrechè non si sopporterebbero, non sarebbero giuste, come quello che volentieri è disposto di compiacere ai diritti desiderii dei Popoli. In quanto alla difesa esterna, non ci potrebbe offendere che Austria; ma avendo essa dichiarato astenersi da prendere parte nelle faccenda altrui, possiamo starcene in pace: dove poi s'intendesse dichiararle la guerra, il Governo al tutto si opporrebbe per questi motivi: — sono i soldati nostri pochi, non bene addestrati negli esercizii militari, della disciplina impazienti; i Popoli miti, repugnanti dalla guerra; e mentre di lieve momento sarebbe il soccorso nostro, troppo grande avventureremmo la posta nel giuoco periglioso, conciossiachè vincendo guadagneremmo nulla o poco, restando vinti perderemmo del tutto indipendenza e libertà.» — Io però confesso di leggieri che in tanta esaltazione di animi, cotesto partito sarebbe stato a praticarsi impossibile. Ma il Governo, procedendo nell'opposto concetto della guerra, a liberarsi da ogni improntitudine poteva dire: «Volete guerra, e guerra sia; e Dio protegga la causa migliore. Però voi tutti, che chiedete armi, nè soldati siete, nè volete diventarlo; ora, le armi sono sempre arnesi di costo grande, oggi poi pel bisogno preziose, per l'uso sante; noi sì le daremo, ma a chiunque voglia adoperarle davvero in benefizio della patria, non già a pompa vana, o ad altro uso più reo. Pertanto chi intende essere armato e vestito soldato per la Indipendenza, venga, e si arruoli per tutto il tempo che durerà la guerra. Gli arruolati saranno spediti senza indugio ai campi disegnati, onde si addestrino negli esercizii, alla soldatesca vita si accostumino, e così portino negli scontri che si apparecchiano, non solo lo ardore che fa i martiri, ma ancora la disciplina che fa i vittoriosi.» Per questo modo i millantatori avrebbero cagliato, i generosi rinvenuto la via a soddisfare gli spiriti bollenti, ai tumulti tolto il pretesto. Il Governo non seppe abbracciare speditamente alcuno di questi partiti; più tardi disse non avere potuto riporre fiducia nei toscani uomini, e ben per loro; però che la molta civiltà acquistata gli rendesse inetti al combattere;[65] parole, che fecero parere bella la stessa barbarie, avvegnadio, che cosa possa essere un Popolo incapace a rivendicare la propria independenza non sappiamo vedere, dove non sia il somaro che porta, lo schiavo che diletta, il buffone che percosso ringrazia per fare ridere il suo signore: tra i flagelli di Dio bisognerebbe allora annoverare la civiltà.