Ella ora doveva vestirsi in festa: la gente nelle vie l'avrebbe guardata passare. Una furia di vanità sùbito la prese: si chiuse nella stanza, cercò in fondo alla cassa le vesti più chiare. Un odore acuto di canfora saliva da quei vecchi tessuti conservati là dentro per anni: erano grandi gonne di seta a fiorami, verdi e violette e cangianti, che un tempo la crinolina avea forse gonfiate in torno alle anche di una sposa novella; erano lunghi busti con màniche ampie, mantelline color di tortora orlate di merletti bianchi, veli intrecciati di fili d'argento, collari di tela fina ricamati a giorno; tutte cose morte per l'uso, goffe, macchiate dall'umido.
Orsola sceglieva, come guidata da un nuovo istinto, profumandosi di canfora le mani nel cercare. Tutta quella seta inutile e quei veli la irritavano. Non trovava alfine nulla che le andasse alla persona! Chiuse la cassa irosamente, la respinse sotto il letto con un urto del piede. Le campane sonavano per la terza volta. Ella si mise in furia il consueto abito triste color di cenere, in conspetto di Camilla, mordendosi le labbra per ricacciare in giù le lacrime.
Le campane chiamavano. Per le vie i fasci delle palme mettevano un mobile luccicore argenteo; da ogni gruppo di villici sorgeva una selva di ramoscelli; e la candida clemenza della benedizione cristiana si diffondeva per tutta l'aria da quelle selve, come se si appressasse il Galileo, il re povero e dolce sedente su l'asina fra la turba dei discepoli, in contro agli osanna del popolo redento. Benedictus qui venit in nomine Domini. Hosanna in excelsis!
Nella chiesa la folla era immensa, sotto la selva delle palme. Per una di quelle correnti che si formano irresistibili nelle masse di popolo, Orsola fu divisa da Camilla; restò sola in quel rigurgito, in mezzo a tutti quei contatti, in mezzo a tutti quegli urti e quegli aliti. Ella tentava d'aprirsi un varco: le sue mani incontravano la schiena d'un uomo, altre mani tiepide il cui tocco la turbava. Ella si sentiva sfiorare il volto da una foglia d'olivo, contrastare il passo da un ginocchio, spingere il fianco da un gomito, offendere il petto, offendere le spalle da pressioni incognite. Sotto l'odore dell'incenso, sotto le palme benedette, nella penombra mistica, in tutto quell'ammasso di cristiani e di cristiane, piccole scintille erotiche scoccavano per attrito e si propagavano; amori segreti si ritrovavano e si congiungevano. Passavano accanto a Orsola fanciulle della campagna con palme sul petto, con un riso fuggente nel bianco degli occhi vòlto ad amatori che dietro le insidiavano; ed ella sentiva in torno a sè così passare l'amore, poneva il suo corpo tra quei corpi che si cercavano, era un ostacolo a quei gesti che tentavano toccarsi, separava le strette di quelle mani, i legami di quelle braccia. Ma qualche cosa di quelle carezze interrotte le penetrava nel sangue. In un punto ella s'incontrò a faccia a faccia con un soldato biondo; quasi gli posò il capo su la tunica, perchè una colonna di gente dietro la spingeva. Ella levò gli occhi; e il giovine sorrise come aveva sorriso un giorno dall'abbaino della caserma. Dietro, l'urto seguitava: il vapore dell'incenso si spandeva più denso, e il Diacono dal fondo cantò:
— Procedamus in pace.
E il coro rispose:
— In nomine Christi. Amen.
Era l'annunzio della processione, che mise un sommovimento enorme in tutto il popolo. Per istinto, senza pensare, Orsola si attaccò all'uomo, come se già gli appartenesse; si lasciò quasi sollevare da quelle braccia che la prendevano ai fianchi, si sentì ne' capelli quel fiato virile che sapeva lievemente di tabacco. Ella andava così, indebolita, sfinita, oppressa da quella voluttà che l'aveva colta d'improvviso, non vedendo se non un barbaglio dinanzi a sè.
Allora dall'altare maggiore si mosse il turiferario spargendo nuvoli di fumo cerulo e dolce sul popolo; e una processione candida si svolse nel mezzo della chiesa. I celebranti portavano in mano rami d'olivo e cantavano.
X.
Tutta la settimana santa protesse delle sue complici ombre l'amore della vergine Orsola. Le chiese erano immerse nel crepuscolo della Passione, i crocifissi sugli altari erano coperti di drappi violacei; i sepolcri del Nazareno erano circondati di grandi erbe bianche cresciute nei sotterranei; un profumo di fiori e di belzuino pesava nell'aria.
Là Orsola, inginocchiata, attendeva, fin che un passo leggero dietro di lei la faceva trasalire. Ella non poteva volgersi, perchè Camilla la vigilava; ma si sentiva tutta abbracciare dallo sguardo di quell'uomo, come da un fuoco sottile, e una tenerezza torbida le scendeva nella carne. Allora fissava i ceri digradanti su un triangolo di legno presso l'altare. I preti cantavano dinanzi a un gran libro; e ad uno ad uno i ceri venivano spenti. Non ne rimanevano che cinque, non ne rimanevano che due; l'oscurità si avanzava dal fondo delle cappelle su la gente in preghiera. L'ultima fiammella finalmente spariva; tutte le panche risonavano sotto le battiture delle verghe. Orsola nel buio, a pena si sentiva toccare da due mani cercanti, scattava dal pavimento, con un sussulto, smarrita. Poi, quando usciva dalla chiesa, il pensiero d'aver violato un luogo sacro la empiva di rimorso: subitamente, la paura del castigo risorgeva. Ella s'inabissava poi come in un sogno dove la figura livida di Gesù morto e lo scroscio delle battiture e i brividi della carne sollecitata e l'odor grave dei fiori e gli aliti di quell'uomo biondo si mescolavano in un senso dubbio di dolore e di piacere.
XI.
Ma come Gesù trionfante risalì alla gloria dei cieli, gli aromi pasquali non più confortarono l'amore della vergine Orsola. Scena dell'amore fu allora il dominio dei gatti randagi e dei colombi torraioli. Dall'abbaino alla finestra i dolci segni correvano: tra mezzo, il lupanare si sprofondava come un fossato d'acque limacciose a' cui cigli crescessero fiori alimentati dalla putredine. I colombi sorvolavano con il luccichio verde e grigio delle loro piume.
L'amadore aveva un bel nome antico, si chiamava Marcello, e aveva un bel fregio rosso e d'argento su le maniche della tunica. Scriveva epistole piene di fuoco eterno, con frasi impetuose che davano all'amatrice deliquii di tenerezza e fremiti di voluttà mal contenuta. Orsola leggeva quei fogli in segreto, li teneva notte e giorno nel seno: pe 'l calore la scrittura violetta le s'imprimeva su la pelle, ed era come un gentile tatuaggio d'amore, di cui ella gioiva. Le risposte di lei non finivano mai: tutta la sapienza grammaticale di una maestra, tutto il tesoro delle apostrofi psalmistiche di una devota, tutta la fluente sentimentalità di una pulzella tardiva si riversava su la carta de' quaderni scolastici rigati di turchino. Ella scrivendo si obliava, si sentiva trascinare in un'onda di verbosità sonore. Pareva quasi che una facoltà novella si esplicasse in lei e prendesse forme maniache, d'improvviso. Quel gran sedimento di lirismo mistico accumulato per la lettura de' libri di preghiera in tanti anni di fedeltà allo Sposo Celeste, ora, scosso dal tumulto dell'amore terreno, si levava su confusamente per assumere sapori di profanità nuovi. Così le lacrimose implorazioni a Gesù si mutavano in sospiri di speranza verso letizie d'amplessi non eterei, le offerte del fior dell'anima al Sommo Bene si mutavano in tenere dedizioni della carne al disio del biondo amante, e il lume afrodisiaco della luna si cingeva di tutti gli epiteti per cui va radioso lo Spirito Santo, nè gli zefiri della primavera mancavan di rapire gli aromi alle mense del Paradiso.
XII.
Era messaggero uno di quegli uomini che paion cresciuti su, come funghi, dall'umidità della strada immonda ed hanno in tutta la figura quasi una nativa tinta di fango; di quelli uomini bigi, che s'insinuano per tutto, che si trovano per tutto ov'è un centesimo da guadagnare, un po' di untume da leccare, uno straccio da sottrarre, oggi rigattieri e domani procaccianti in atto di serve o di male femmine, oggi falsi sensali di mercatanzia e domani accalappiatori di cani erratici.
Costui aveva un nome melodrammatico,