— Un difettuccio al cuore, non batte regolarmente, a quanto ne dice il medico, — rispose Mascotti che credeva di aver trovato la forma più mite per definire la grave malattia.
— Ella mi attendeva alla stazione; mi hanno mandato un telegramma? — chiese Alfonso che si rammentò della prima sorpresa di Mascotti al vederlo.
— Sì, ma grazie al cielo...
Alfonso non stette a udire che il sì:
— Ci rivedremo a casa, — e, col baule in una mano, il bastone nell’altra, si mise a correre non badando più a Mascotti che lo seguì per un tratto gridando qualche parola ch’egli non intese.
La notizia inaspettata gli aveva fatto battere rapidamente il cuore. Doveva essere ben grave se erano stati costretti a richiamarlo con tanta premura. Fu ben presto stanco dalla corsa e dall’emozione, ma continuò a correre sembrandogli che qualche parte della vita della madre dipendesse dall’esito di questo suo sforzo.
E correndo gli si rizzarono i capelli sulla testa pensando che forse egli correva ad abbracciare un cadavere; non poteva essere che fosse questo l’annuncio che Mascotti aveva voluto dargli gridandogli dietro?
Oh! egli da molto tempo l’aveva dimenticata quella povera donna che moriva. Erano tre settimane ch’ella non gli aveva scritto e lui tutto intento intorno alle gonnelle di Annetta non se n’era neppure accorto. Non avrebbe dovuto comprendere che solo un grave impedimento poteva averle fatto interromper l’invio di solito tanto regolare delle sue letterine?
Era giunto finalmente nell’orto dinanzi alla casa. Una vecchia alta e robusta vi raccoglieva delle ortaglie.
— Che cosa comanda? — gli chiese rizzandosi in tutta la sua lunghezza.
Era una faccia a lui del tutto nuova. La pelle di questo volto, che solo per la mancanza di peli si riconosceva appartenere a donna, era incartapecorita dal sole e tutta l’espressione della faccia si concentrava nei due occhietti neri, vivaci, da sorcio, inquadrati in quel legno.
— Come sta mia madre? — chiese Alfonso impaziente.
— Oh! il signor Alfonso! Ha fatto bene a venire, — disse con lentezza la vecchia, e venne a lui. — La signora, dice il signor dottore, sta meglio.
Stava meglio quando egli la credeva morta! Ad ogni modo gli veniva accordato il tempo per baciarla e dimostrarle l’affetto immenso che gli gonfiava il cuore. Il caso lo trattava meglio di quanto egli meritasse.
— Entri! entri! — gli disse la vecchia che guardava con desiderio le sue ortaglie.
Egli non volle e la invitò ad andare essa la prima a preparare l’ammalata. Poi, vedendo ch’ella indugiava, le spiegò che doveva avvertire dapprima che c’era qualcuno, poi qualcuno che l’avrebbe grandemente sorpresa di rivedere, infine qualcuno che le sarebbe stato caro di rivedere, suo figlio.
Entrò con lei in casa. Le due uniche stanze che i Nitti avessero abitato nella casa relativamente vasta erano situate al pianterreno. Erano le uniche due che avessero luce a sufficienza e vano era stato il tentativo del defunto dottore di abituarsi ad una terza per servirsene di stanza di studio. Mancava di luce ed era troppo grande perché il vecchio medico co’ suoi pochi mobili e la miserabile biblioteca non vi si sentisse troppo solo; la stanza rimase destinata a biblioteca, ma il dottore non studiò più nulla.
La stanza posta immediatamente all’entrata era vuota con un solo letticciuolo in un canto, mentre quando Alfonso l’aveva abitata era stata fornita di tutto quanto si poteva nelle condizioni della famiglia Nitti. Alle mura erano stati appesi i pochi quadri che la famigliuola possedeva e molte riproduzioni di quadri celebri, parecchi di Orazio Vernet, cammelli dai corpi enormi e fisonomie tranquille, pazienti, bestie più simpatiche degli uomini che li conducevano.
Nell’altra stanza avevano abitato i coniugi Nitti. Era ripiena di vecchi mobili enormi di legno semplice che stavano bene in quello stanzone e lo rendevano abitabile. Fra le due finestre v’era un orologio moderno a pendolo, l’ultimo oggetto che il Nitti avesse portato in casa. Durante i mesi di malattia del vecchio medico, la famigliuola, per fargli compagnia, aveva pranzato in quella stanza e nel mezzo era stato posto il tavolo che doveva ancora esserci, a quanto la signora Carolina aveva scritto ad Alfonso.
La tristezza che lo assalì in quella prima stanza, ove attendeva di venir chiamato e che riconosceva ad onta che non vi fosse alcun oggetto che aiutasse i suoi ricordi, non era tutta risultato del trovare sua madre ammalata. Questa a cui egli sentiva di andare ad assistere era una delle sventure della sua vita. Grandissima era stata quella della morte del padre! In quei luoghi, dinanzi al villaggio e alla casa e in quella prima stanza, dacché aveva abbandonato la ferrovia, egli si sentiva accompagnato dal suo ricordo. La bella gioventù che gli aveva fatto passare: quanto tranquilla, protetta! La famiglia doveva certo aver passato delle brutte epoche ed egli nulla ne aveva saputo, né durante la prima gioventù in villaggio, né poi in città ove il vecchio Nitti per qualche tempo aveva tentato invano di farsi una clientela. Quanta bontà e quanta rassegnazione! Non s’era lagnato mai il vecchio e le esperienze fatte dal padre non avevano rubato le illusioni al figliuolo. — È giusto! — aveva detto un giorno ad Alfonso che nelle vacanze era venuto a casa con uno splendido certificato, — la fortuna che non ho avuto io l’avrai tu. — E Alfonso l’aveva creduto perché vedeva che i genitori, persone vecchie e d’esperienza, lo credevano.
La madre lo aveva chiamato con un grido in cui egli aveva riconosciuto l’emozione della gioia e la debolezza della malattia.
Volle gettarsi fra le sue braccia, ma, fatto un passo nella stanza, si trovò nella più profonda oscurità e non ebbe il coraggio di avanzarsi.
Si sentì preso ruvidamente per un braccio e tratto a sinistra. Comprese che la madre si trovava in quel letto e da lì ella gli chiese balbettando:
— Sei tu, Alfonso?
— Stai meglio, mamma?
— Sì, sì, molto. Apri la finestra, Giuseppina, acciocché lo vegga.
La vecchia spalancò dapprima la finestra più lontana dal letto e nella penombra egli riconobbe il volto della madre che gli parve poco mutato. Giaceva supina, non lo guardava e mormorava delle parole a bassa voce. Egli fu spaventato credendola febbricitante e la chiamò.
— Sono religiosa, — disse ella scotendosi, — non speravo più di rivederti e ringrazio chi fece che tu arrivassi tanto presto, — e lo attirò a sé sorridendo.
Egli conosceva questa voce e questo modo. La gravità e la serietà tanto pronte a fondersi nella dolcezza e nello scherzo. E ancora una volta rivide la fisonomia del padre che pensava e parlava proprio così, mai tanto vicino a sorridere come quando il suo volto si atteggiava a grande serietà e la sua parola risonava pateticamente commossa. Nei lunghi anni ch’ella aveva vissuto con lui se ne era assimilato i modi.
Giuseppina aperse anche l’altra finestra; la spalancò con un solo colpo, rumorosamente.
Neppure allora Alfonso si accorse di quanto fosse mutata la fisonomia della madre. La baciò in fronte quasi tranquillato:
— Hai un aspetto florido.
— Sono grassa, eh?
Senza riguardi Giuseppina intervenne con la sua voce poco aggradevole, bassa.
— Ma sì! lo dico sempre io che ha l’aspetto florido e che il dottore che la fa rimanere a letto è un asino.
La signora Carolina aveva attirato Alfonso di nuovo a sé e gli passava la mano attraverso ai capelli bruni.
— Tu sei divenuto anche più bello, ciò che Rosina sicuramente non avrebbe creduto che fosse possibile, — gli disse guardandolo con attenzione. — Abbiamo avuto torto di dividerci. Adesso sarei certamente in questa stessa situazione, ma avrei passato meglio la vita fin qui!
A quella distanza Alfonso aveva capito che cosa desse alla madre l’aspetto tanto florido. Era gonfia, una guancia molto più