“Allor ava bene,” mormorò.
Afferrò la manopola e la ruotò dall’altra parte. Piccoli stratagemmi raccolti nel tempo. L’acqua fredda cominciò a colpirle la testa, facendole venire la pelle d’oca sulle braccia. Nel giro di pochi istanti Adele iniziò a battere i denti e il dolore al fianco svanì lasciando spazio a un indolenzimento gelido mentre l’acqua da fredda diventava ghiacciata.
Ma lei rimase nella doccia.
L’assassino l’aveva presa in giro. Come se avesse saputo qualcosa. Qualcosa che a lei era sfuggito. Qualcosa che era sfuggito anche alle autorità. Cosa c’era di così importante nel suo posto di lavoro? Quella era la parte che la disturbava di più. Era come se… Scosse la testa, cacciando via il pensiero.
Ma… e se fosse vero?
E se il killer di sua madre fosse in qualche modo collegato al DGSI? Magari non l’agenzia stessa, ma l’edificio. Magari c’era una connessione. Altrimenti che altro senso potevano aver avuto le sue parole?
Soprattutto considerato dove lavoravi…
L’uomo che John aveva ucciso sapeva qualcosa dell’assassino di sua madre. Ma se l’era portato nella tomba. E il Killer di Picche, l’uomo che lui aveva tanto venerato, l’uomo che aveva ucciso sua madre, era ancora libero.
L’acqua fredda continuava a scorrere in mezzo alle sue scapole e lei fece qualche breve respiro rapido e ravvicinato in risposta a quella sensazione, ma ancora si rifiutò di spostarsi.
La prossima volta sarebbe stata più furba. Le avevano chiesto di far parte di una task force con l’Interpol in caso di necessità. Ma Adele non vedeva l’ora di tornare in Europa. La California le piaceva, e le piaceva anche lavorare con l’FBI, soprattutto con la sua amica, l’agente Grant, come supervisore. Ma il desiderio di risolvere l’omicidio di sua madre le richiedeva un certo livello di vicinanza geografica al luogo dei fatti.
Alla fine, spingendo un braccio contro la porta di vetro e annaspando, Adele ruotò il pomello della doccia.
La cascata di acqua ghiacciata cessò. Lei rimase tremante all’interno della cabina in vetro e plastica, mentre l’acqua le gocciolava dal corpo.
Chiunque avesse progettato quel bagno, aveva messo il porta-asciugamano sul retro della porta, dalla parte opposta della stanza. Ci volevano un paio di passi per raggiungerlo, e anche se lei aveva messo un tappeto da bagno sul pavimento per assorbire l’acqua, preferiva sempre aspettare un po’ nella doccia, in attesa che l’eccesso di acqua scivolasse giù, prima di uscire.
E quindi aspettò, pensando, meditando, tremando. Pensò a un’altra volta che si era trovata bagnata zuppa di acqua, anche lì tremante…
Un lampo di calore le pervase le guance. Pensò a quando aveva nuotato nella piscina di Robert. John era venuto per una serata…
Era insopportabile. Rude, odioso, fastidioso, per niente professionale.
Ma anche affascinante, disse una piccola parte di lei. Affidabile. Pericoloso.
Scosse la testa e uscì dalla doccia, facendo stridere la porta di vetro e metallo, mandandola a sbattere contro la parete gialla. Un paio di pezzettini di intonaco caddero dal soffitto. Adele sospirò, guardando in alto. Sotto alla pittura del muro si erano già formate delle macchie di muffa. Il proprietario precedente ci aveva tinteggiato sopra, nascondendo quindi il problema.
Magari avrebbe potuto mandare un messaggio a John.
No, sarebbe stato un atteggiamento troppo familiare. Un’email allora? Troppo impersonale. Una telefonata?
Adele esitò un momento e allungò la mano per prendere l’asciugamano e asciugarsi i capelli. Una chiamata poteva essere carina. Si asciugò poi lungo il fianco, sussultando ancora per il graffio.
Alcune ferite guarivano lentamente. Ma altre volte era meglio evitarle a priori, le ferite. Forse era meglio che non telefonasse a John.
La stanchezza le pesava sulle spalle mentre si dirigeva in camera da letto. Tre ore di straordinari, a compilare carte e a giustificare il motivo dello sparo, ora si stavano facendo sentire.
Era un pensiero orribile, ma Adele stava iniziando a sperare di avere presto un caso in Europa.
Magari qualcosa che non facesse troppo male a qualcuno. Giusto qualcosa che la tirasse fuori dalla California per un po’. Fuori da quel piccolo e angusto appartamento. C’era troppo silenzio. Per alcune persone, il rumore di altri esseri umani che si muovevano attorno, che si godevano le loro vite, era un rumore ristoratore. Teneva alla larga certi sprazzi di solitudine.
Adele sospirò ancora ed entrò nella sua stanza, preparandosi per andare a letto. Si sistemò una benda sul graffio e cercò di cacciare via ogni pensiero di astio nei confronti del suo nuovo partner. Si infilò a letto e rimase ferma lì qualche minuto.
In passato, lei ed Angus guardavano la TV prima di addormentarsi. A volte lui leggeva un libro, raccontandoglielo a voce alta riga per riga, in modo che anche lei se lo potesse sentire. Altre volte stavano solo lì abbracciati a parlare per ore prima di appisolarsi.
Ora però c’era solo lei lì sdraiata. Niente TV. Niente libri. Solo silenzio.
CAPITOLO TRE
Melissa Robinson salì i gradini dell’appartamento canticchiando sommessamente tra sé e sé. In lontananza sentiva le campane della città. Si fermò per ascoltare e il suo sorriso si fece più grande. Abitava a Parigi da sette anni ormai, ma quel suono non la stancava mai.
Imboccò l’ultima rampa di scale. Niente ascensori in questi appartamenti. Gli edifici erano così vecchi. Pieni di cultura, pensò tra sé e sé.
Sorrise ancora e salì i gradini uno alla volta. Non c’era fretta. La neo-arrivata che doveva incontrare aveva detto alle due. Era le 13:58. Melissa si fermò sul pianerottolo, guardando fuori dalla grande finestra che lasciava vedere la città sottostante. Non era cresciuta a Parigi, ma quel posto era bellissimo. Adocchiò le vecchie strutture in pietra ingiallita di certi edifici che erano più vecchi di alcuni Paesi. Notò lo schema geometrico di alcuni appartamenti e locali e strade che si incrociavano nel cuore della città.
Con un altro sospiro soddisfatto, Melissa raggiunse la porta al terzo piano e bussò delicatamente sulla cornice. Passarono alcuni istanti.
Nessuna risposta.
Continuò a sorridere, sempre ascoltando le campane e poi girandosi ancora a guardare fuori dalla finestra. Da lì si vedeva la piccola guglia di Sainte-Chapelle che si stagliava all’orizzonte.
“Amanda,” chiamò con voce delicata e gentile.
Ricordò la prima volta che era venuta a Parigi. Le era sembrato tutto così travolgente. Sette anni fa, un’espatriata dall’America che si sistemava in un nuovo Paese, in una nuova cultura. La gente che bussava alla porta era stata una distrazione ben accetta al tempo. Melissa sapeva che molti dei suoi amici nella comunità di espatriati facevano fatica ad adattarsi alla città. Non era sempre così amichevole di primo acchito, soprattutto non per gli americani, o per ragazzi in età da college. Ricordava i primi due anni passati in un campus in America. Era stato come se tutti avessero voluto essere suoi amici. In Francia la gente era un po’ più riservata. E questo era il motivo per cui lei dava una mano a organizzare il gruppo.
Melissa sorrise ancora e diede un altro colpetto alla porta. “Amanda,” ripeté.
Ancora nessuna risposta. Esitò, guardando da una parte e dall’altra del corridoio. Mise la mano in tasca e ne tirò fuori il telefono. Gli smartphone andavano benissimo ed erano comodi, ma Melissa preferiva qualcosa più in vecchio stile. Diede un’occhiata al vecchio telefono a conchiglia e notò l’ora sullo schermo. Le 14:02. Scorse i messaggi e lesse di nuovo l’ultimo che Amanda le aveva mandato.
“Sono