“Voglio parlare con uno dei prigionieri,” disse Genevieve. “Quello nuovo, Garet. Tutto qua. Non intendo intrattenermi con nessuna tortura, né chiedere che lo porti al cancello per liberarlo. Voglio parlare con lui. Mi conosce, e mi dirà più di quanto potrebbe mai dire a chiunque altro. Pensi che il re vorrà sentirsi raccontare che hai impedito un’azione che potrebbe farci guadagnare informazioni?”
Ora Genevieve poteva vedere la paura sul volto dell’uomo. C’era una specie di potere in ciò, e nelle cose che era impossibile fare solo con le parole. Ora l’uomo si mosse rapidamente, correndo alla porta, aprendo la serratura con la chiave, poi con un’altra, sollevando la sbarra prima di scostare l’uscio e rivelare l’oscurità che si trovava al di là. C’era una candela fissata alla parete vicino alla porta. La guardia la sollevò e la offrì a Genevieve. Genevieve la prese, muovendosi vicino all’uomo, tanto vicina da poter sentire il suo alito rancido.
Tanto vicina da poter afferrare le sue chiavi.
“Cosa…”
“Dovrò entrare nella cella con lui,” gli disse quando l’uomo notò quello che aveva fatto. “Uscirò da sola quando avrò finito. A meno che tu non abbia delle obiezioni?”
Era ovvio che aveva un sacco di obiezioni, ma non osava darvi voce.
“Si trova nella cella in fondo, mia signora.”
Genevieve gli passò accanto prima che potesse avere il coraggio di dire qualcosa. Si inoltrò nelle profondità delle prigioni, muovendosi rapidamente, sapendo che avrebbe avuto solo un certo tempo limitato prima che la guardia si rendesse conto che sarebbe stato meglio controllare se le era davvero permesso di entrare là sotto. A un certo punto, avrebbe pensato di chiederlo al re – probabilmente già lo voleva fare – e Genevieve poteva solo sperare che sarebbe passato sufficiente tempo prima che l’uomo potesse raccogliere il coraggio di abbandonare la sua postazione.
Genevieve avanzava nelle prigioni, seguendo una contorta serie di scale che in certi punti erano scivolose perché ricoperte di muffa. Era certa di sentire il gocciolio dell’acqua da qualche parte lì vicino. Poteva sentire anche dell’altro: c’erano grida che venivano da qualche parte più in profondità, e lei voleva solo sperare che non fossero le grida di Garet.
Non riusciva a vedere nulla oltre al piccolo cerchio di luce che le offriva la candela. Era un’illuminazione cupa e intermittente, che le permetteva di vedere solo pochi metri del corridoio di pietra in entrambe le direzioni. C’erano porte su entrambi i lati, di legno e con sbarre di ferro disposte ad altezza degli occhi in modo che il carceriere potesse controllare i prigionieri.
Probabilmente c’erano prigionieri in molte delle celle, e una parte di Genevieve desiderava poterli liberare tutti, ma sapeva che non c’era modo di farlo. Poteva. Poteva far sgattaiolare fuori Garet, soprattutto se poi fosse riuscita a trovare un posto dove nascondersi con lui fino al ritorno della messaggera di sua sorella. Non c’era modo di poter far uscire di lì una processione di prigionieri, però.
Camminò fino all’ultima cella, riconoscente di non dover guardare in ciascuna di esse per tentare di trovare Garet. Genevieve non era sicura di poter impedire che le si spezzasse il cuore se avesse visto ogni persona che avevano catturato e torturato.
Raggiunse l’ultima cella e sollevò la candela per guardare attraverso il buco. La luce non era sufficiente a vedere chiaramente le cose, ma Genevieve poté distinguere una figura, poco più illuminata dalla luce che proveniva da una stretta finestrella. La persona se ne stava rannicchiata e mezza avvolta in un mantello. Poteva benissimo essere Garet, e questo bastò a farle fiorire la speranza in cuore.
“Garet?” lo chiamò lei. “Garet, sono Genevieve.”
Lui non rispose, ma poi, lui e i suoi fratelli non avevano voluto parlarle neanche quando era andata da loro al castello del vecchio duca. Pensavano che li avesse traditi, tradendo anche Royce. Garet probabilmente pensava volesse aiutare Altfor.
“Garet, ti prego, parlami. Ti posso aiutare.”
Genevieve rovistò tra le chiavi che aveva preso alla guardia. Le ci vollero diversi tentativi per trovare quella giusta, e sentire lo scatto della serratura che si apriva. Genevieve entrò nella cella, sperando che Garet vedesse che era sola, sperando che fosse propenso a tentare una fuga, anche se non credeva che lei fosse lì per aiutarlo.
“Garet, so che pensi che stia aiutando Altfor, ma non è così,” disse Genevieve. “Sono qui per aiutare te. Sono qui per aiutarti a scappare.”
Ancora nessuna risposta dalla figura rannicchiata nell’angolo. Genevieve si trovò a sperare che non fosse per quello che avevano fatto a Garet là sotto, che non lo avessero torturato al punto che lui non poteva parlarle.
“Garet, ti prego,” disse Genevieve. “Sono dalla tua parte. Voglio tirarti fuori da qui. So che tante cose che ho fatto mi fanno apparire dalla parte di Altfor, ma ti posso promettere che le ho fatte tutte perché amo Royce. Gli ho mandato dei messaggi, dicendogli dei piani di Altfor. Sai che programma di fare un finto attacco dal sud e che manderà invece delle navi da nord?
“Sì,” disse la figura, e quelle parole furono sufficienti per farle gelare il sangue nelle vene. Conosceva quella voce, e non era quella di Garet.
La figura si alzò in piedi, lasciando cadere il mantello a terra. Lì davanti a lei, illuminato a metà, si trovava Altfor, il suo sorriso reso ancora più crudele dal bagliore della candela.
“Immaginavo che avresti fatto una cosa del genere,” disse, avanzando verso di lei. Genevieve era talmente stupefatta che neanche reagì quando lui le strappò le chiavi di mano. “Immaginavo che la presenza del ragazzo ti avrebbe indotta a uscire allo scoperto, dandomi la scusa per fare quello che desidero.”
Genevieve sapeva di cosa la stava minacciando, e subito la sua mente andò all’unica protezione che sapeva di possedere. “Sono tua moglie.”
“Una moglie che ama il mio nemico!” gridò Altfor. “E anche un traditore. Essere una nobildonna non ti proteggerà adesso.”
“Sono incinta di tuo figlio,” sottolineò Genevieve.
“Sì,” disse Altfor. “È vero.”
Le passò accanto e si diresse alla porta, attraversandola e sparendo prima che Genevieve potesse reagire. Il suo volto apparì attraverso il foro nella porta.
“Deciderò cosa fare con te,” disse. “Magari aspetterò fino a che avrai mio figlio in grembo e poi ti farò giustiziare. O magari no. Ma stai certa, Genevieve, che morirai per questo.”
CAPITOLO SETTE
Mentre navigavano, Royce era consapevole del senso di speranza che aleggiava sulla barca. Avevano trovato suo padre, lo specchio stava nella sua borsa sul fondo dell’imbarcazione e ora erano diretti verso casa. Avevano davvero fatto quello che avevano programmato di fare, nonostante tutte le sfide che si erano trovati davanti sulle Sette Isole. Se erano riusciti a fare questo, probabilmente sarebbero riusciti a completare anche tutto il resto.
“È davvero il re,” sussurrò Mark, guardando verso il punto in cui si trovava seduto il padre di Royce, intento a osservare le onde. Il ragazzo sembrava stupefatto e attento a seguire ogni singola mossa di re Filippo, come se fosse in attesa di istruzioni da parte sua.
“Ed è anche mio padre,” disse Royce. Per quanto lo riguardava, quella era la cosa più importante.
“Tuo padre, il re,” confermò Mark. “Mi spiace, so come suona, e hai fatto un sacco di cose impressionanti anche tu, ma te ti conosco.”
“E con il tempo conoscerai anche mio padre,” disse Royce. Lui stesso voleva conoscere meglio suo padre. Dopo tutto quel tempo divisi, avevano tantissime cose da recuperare. Royce voleva sapere tutto ciò che suo padre aveva fatto da quando se n’era andato, e voleva capire di più che