PROLOGO
La maggior parte delle volte, a Karen Hopkins lavorare a casa piaceva. Si teneva occupata, il che era un bene, perché la piccola attività di ottimizzazione web che doveva essere solo un lavoretto secondario, in qualche modo era diventata una cosa full time – una cosa full time che avrebbe aiutato lei e il marito Gerald ad andare in pensione entro due o tre anni. Ma c’erano giorni in cui i clienti erano così maledettamente stupidi che quasi rimpiangeva gli anni in cui rispondeva a qualcun altro. L’abilità di passare i clienti piantagrane a qualcuno di più in alto nella catena le sarebbe stata utile fin troppo spesso.
Guardava un’email chiedendosi come rispondere alla domanda idiota di un cliente senza sembrare maleducata. Al momento stava ascoltando su Spotify una delle sue playlist classiche – ma non di quelle con molti archi a sovrastare il pianoforte. No, lei preferiva piano e basta. Al momento cercava di gustarsi la Gymnopedie No. 1 di Erik Satie.
La parola chiave era cercava. Veniva distratta dall’email e dalle occasionali domande dell’uomo nel salotto. Il salotto era separato dall’ufficio da un’unica parete, quindi ogni volta che quello aveva una domanda da fare, praticamente doveva urlare. Era abbastanza socievole, ma santo cielo, Karen stava cominciando a desiderare di non averlo mai chiamato.
«Che tappeto meraviglioso che ha qui» disse, e la voce gridava attraverso la parete, attraverso Erik Satie e attraverso i pensieri che aveva raccolto Karen a proposito di quella maledetta email. «Orientale?»
«Credo di sì» disse lei girandosi oltre la spalla. Dava la schiena all’ingresso per il corridoio e, oltre, il salotto, e così era costretta a parlare piuttosto forte.
Cercò di tenere un tono cortese… persino allegro. Ma era difficile. Era troppo distratta. Quell’email era importante. Era un cliente abituale che apparentemente avrebbe portato ancor più lavoro nei prossimi mesi, ma quelli che gli gestivano l’attività parevano degli idioti.
Si mise a digitare una risposta scegliendo ogni parola con attenzione. Era difficile fare i professionali e i ragionevoli quando, arrabbiatissimi, si metteva in questione l’intelligenza della persona a cui si stava scrivendo. Lei lo sapeva bene, e le sembrava di dover sopportare la cosa molte volte al mese.
Lavorò per quattro secondi prima che l’uomo nel salottino la chiamasse di nuovo. Karen fece una smorfia, desiderando di non averlo mai chiamato. Il tempismo era pessimo. Che diamine aveva pensato? Avrebbe potuto aspettare fino al weekend, davvero.
«Vedo le foto dei suoi figli sulla mensola del camino. Quanti sono? Tre?»
«Sì.»
«Quanto hanno adesso?»
Dovette mordersi la lingua per non dirgli qualche parolaccia. Però era importante mantenere le apparenze. Inoltre, non sapeva quando avrebbe dovuto richiamarlo.
«Oh, adesso sono tutti grandi – venti, ventitré e ventisette anni.»
«Un bel gruppo di ragazzi, sicuro» ripose lui. Poi ammutolì. Lei lo udì muoversi nel salotto, incluso l’occasionale canticchiare basso e ripetitivo. Le ci volle un attimo per accorgersi che canticchiava seguendo la musica che veniva dall’ufficio, passata a un altro pezzo di Satie. Alzò gli occhi al cielo, desiderando che se ne stesse zitto. Certo, lo aveva chiamato lei per un servizio, ma la stava già irritando. Ma i professionisti di solito non venivano, lavoravano in silenzio e poi se ne andavano felicemente pagati? Che problema aveva quello lì?
«Grazie» riuscì a dire, trovando proprio sgradevole l’idea che le guardasse le foto dei figli.
Abbassò la testa e tornò all’email. Inutile, ovvio. Apparentemente il suo visitatore era incline a conversare attraverso i muri.
«Vivono qui intorno?» chiese.
«No» disse. Fu piuttosto breve e secca stavolta, e arrivò pure a girare del tutto la testa a destra in modo che riuscisse a udire l’irritazione della voce. Non aveva intenzione di dargli l’indirizzo dei suoi figli. Dio solo sapeva che razza di domande avrebbe potuto tirarne fuori.
«Capito» disse lui.
Se non fosse stata così assorbita dall’email che aveva davanti, forse avrebbe riconosciuto un gelo inquietante nel silenzio che seguì la domanda. Era un silenzio pregno, del tipo che promette qualcosa, in seguito.
«Oggi aspetta visite?»
Non fu certa del perché, ma qualcosa nella domanda le accese la paura. Era una domanda stramba da fare per uno sconosciuto, in particolare per uno che aveva assunto per un servizio. E non aveva forse sentito qualcosa di diverso nel tono?
Ora preoccupata, distolse lo sguardo dal laptop. Sembrava esserci qualcosa che non andava con lui. E adesso non era più solo irritata dalle domande, ma si stava pure spaventando.
«Più tardi vengono degli amici per un caffè» mentì. «Però non so bene quando. La maggior parte delle volte passano a trovarmi quando ne hanno voglia»
Qui non ebbe risposta, e la cosa fu più spaventosa che mai. Lentamente, Karen fece scivolare la sedia all’indietro e si alzò. Andò alla soglia che collegava l’ufficio al salotto. Sbirciò dentro per vedere che cosa stesse facendo.
Ma lui non c’era. Gli arnesi del mestiere erano ancora lì, ma lui non si vedeva da nessuna parte.
Chiama la polizia…
Il pensiero le sfrecciò per la testa, e lo sapeva che si trattava di un buon consiglio. Ma sapeva anche di essere incline all’esagerazione. Magari era tornato al furgone o qualcosa del genere.
Assurdo, pensò. Hai sentito aprirsi e chiudersi la porta? E poi non ha fatto che chiacchierare. Te lo avrebbe detto che usciva…
Si immobilizzò; passi nel salotto. «Ehi» disse con voce un po’ titubante. «Dove va?»
Nessuna risposta.
C’è qualcosa che non va, le urlò quella vocina nella testa. Chiama subito la polizia!
Con il terrore che le esplodeva nello stomaco, Karen indietreggiò lentamente fino a uscire dal salotto. Fece per tornare nel suo ufficio, dove il telefono giaceva sulla scrivania.
Come si voltò, andò a sbattere contro a qualcosa di duro. Sentì odore di sudore per un solo istante, ma ebbe appena il tempo di registrarlo.
Fu allora che qualcosa le avvolse il collo, stringendo.
Karen Hopkins lottò, combattendo contro a ciò che aveva attorno al collo. Ma più lottava più quella