Gli venne in mente che era sempre stato un sopravvissuto. Cavolo, era sempre stato un vincitore. Era assurdo che dopo più di due decenni di combattimenti, folli avventure e anguste fughe morisse adesso, così. Era impossibile. Era troppo bravo nel suo lavoro. Avevano tentato di ucciderlo così tanti uomini prima di quel momento, e avevano fallito. La sua vita non sarebbe finita così. Non poteva.
Cercò di mettere la mano in tasca per la pistola, ma il braccio sembrava non funzionare bene. Poi si accorse di un’altra cosa. Nonostante tutto il dolore, non riusciva a sentirsi le gambe.
Riusciva a sentire il bruciore nella pancia, dove gli avevano sparato. Riusciva a sentire il dolore fischiante alla testa, dove era andato a sbattere sul pavimento in pietra quando era caduto. Deglutì, poi sollevò la testa e si fissò i piedi. C’era ancora tutto laggiù, e tutto attaccato – ma non riusciva a sentire niente.
I proiettili mi hanno reciso la spina dorsale.
Nessun altro pensiero gli aveva mai causato tanto orrore. Trascorsero svariati secondi in cui vide il suo futuro – avanzare sulle ruote di una sedia a rotelle, cercare di arrampicarsi dalla sedia al sedile del conducente dell’auto accessibile ai disabili, svuotare la sacca della colostomia che gli risucchiava via la merda dal suo inutile sistema digestivo.
No. Scosse la testa. Non c’era un tempo per quello. C’era un tempo solo per l’azione. La pistola di Clean era sopra alla sua testa e dietro di lui. Si allungò – faceva male anche solo alzare le braccia così – ma non riuscì a trovarla. Cominciò a strisciare all’indietro, trascinandosi dietro le gambe.
Qualcosa colse la sua attenzione. Alzò lo sguardo ed ecco che arrivava Jamal, avanzando da spaccone verso di lui. Il bastardo sorrideva.
Avvicinandosi, sollevò l’arma. La puntò su Brown. Adesso Brown notò che con Jamal c’erano i suoi due uomini.
“Non cercare di fare niente, Brown. Stattene steso fermo.”
Gli uomini di Jamal presero la pesante borsa con i soldi, e il piccolo portamonete con i diamanti. Poi si voltarono e tornarono ai camion. Salirono nella cabina del camion di testa. Si accesero i fanali. Il motore ruttò e scoreggiò, del fumo nero si riversò sul lato del conducente.
“Tu mi piaci,” disse Jamal. “Ma gli affari sono affari, no? Per questo affare non lasciamo niente di incompiuto. Mi dispiace. Sul serio.”
Brown cercò di dire qualcosa, ma sembrava non avere voce. Tutto ciò che riuscì a fare in risposta fu farfugliare.
Jamal sollevò di nuovo la pistola.
“Vuoi un momento per pregare?”
Brown quasi rise. Scosse la testa. “La sai una cosa, Jamal? Mi fai venire i nervi. Tu e la tua religione sono sciocchezze. Se voglio pregare? Pregare cosa? Non c’è nessun Dio, e lo scoprirai non appena…”
Brown vide il fuoco lambire la fine della canna della pistola. Poi era piatto sulla schiena, a fissare il soffitto del magazzino alto sopra la sua testa.
CAPITOLO CINQUE
21:45 ora legale delle Montagne Rocciose (23:45 ora legale orientale)
Penitenziario federale ADX Florence (Supermax) – Florence, Colorado
“Eccoci,” disse la guardia. “Casa dolce casa.”
Luke percorreva i bianchi corridoi in calcestruzzo della prigione più sicura degli Stati Uniti. Le due alte e massicce guardie in uniforme marrone lo fiancheggiavano. Erano quasi identiche, quelle guardie, con un taglio a spazzola militare da recluta, grosse spalle e braccia, e un torso ancora più grosso. Avanzavano, i corpi tesi e il baricentro alto, come degli aggressivi attaccanti di una squadra di football fuori dallo sport da un po’ di tempo.
Non erano in forma nel senso tradizionale del termine, ma Luke riteneva che avessero la stazza e la figura perfette per il loro lavoro. A stretto contatto, potevano mettere un bel peso addosso a un prigioniero che faceva resistenza.
I passi riecheggiavano sul pavimento in pietra mentre i tre uomini superavano le porte d’acciaio chiuse e senza finestre di dozzine di celle. Ciascuna porta aveva una stretta apertura vicino al fondo, come una fessura per la posta, attraverso la quale le guardie potevano far passare i pranzi e le cene ai prigionieri. Ciascuna aveva anche due finestrelle con vetro rinforzato in acciaio che davano sul passaggio. Luke non guardò in nessuna delle finestre che superarono.
Da qualche parte in quel corridoio, un uomo urlava. Sembrava in agonia. Urlava e urlava, senza dar segno di finire. Era notte, presto le luci sarebbero state spente, e un uomo gridava. Luke pensava quasi di riuscire a rappresentarsi le parole incorporate in quel rumore.
Guardò una delle guardie.
“Sta bene,” disse la guardia. “Davvero. Non sta soffrendo. Ulula e basta.”
L’altra guardia parlò. “La solitudine ne fa uscire pazzi alcuni.”
“La solitudine?” disse Luke “Volete dire l’isolamento?”
La guardia si strinse nelle spalle. “Sì.” Per lui era una questione semantica. Alla fine del turno andava a casa sua. Mangiava da Denny’s, a vederlo, e attaccava bottone con qualcuno. Portava la fede all’anulare della spessa mano sinistra. Aveva una moglie, probabilmente dei figli. Quell’uomo aveva una vita fuori da quelle mura. E i prigionieri? Non tanto.
Aveva alloggiato lì un gotha di furfanti e cattivi, Luke lo sapeva. L’Unabomber Ted Kaczynski era un residente attuale, così come Dzhokhar Tsarnaev, il fratello sopravvissuto dei due attentatori della maratona di Boston. Il capo mafioso John Gotti aveva vissuto lì per anni, così come il suo violento sgherro, Sammy “The Bull” Gravano.
Era una violazione delle regole del complesso a permettere a Luke di superare la stanza delle visite, ma quelle non erano esattamente le ore di visita, e si trattava di un caso speciale. Un prigioniero aveva delle informazioni da offrire, ma aveva insistito nel vedere Luke personalmente – non a un telefono con uno spesso vetro divisorio tra di loro, ma faccia a faccia, e uomo a uomo, nella cella. La presidente degli Stati Uniti stessa aveva chiesto a Luke di accettare l’incontro.
Si fermarono di fronte a una porta bianca, una delle tante. Luke sentì il cuore perdere un colpo. Era nervoso, solo un pochino. Non cercò di sbirciare l’uomo attraverso le finestre minuscole. Non voleva vederlo così, come un topo che viveva in una scatola da scarpe. Voleva che l’uomo fosse leggendario, immenso.
“È mio compito informarla,” cominciò una delle guardie, “che i prigionieri che si trovano qui vengono considerati tra i più violenti e pericolosi attualmente presenti nel sistema correzionale federale degli Stati Uniti. Se sceglie di entrare in questa cella e declina…”
Luke sollevò una mano. “Non serve. Conosco i rischi.”
La guardia fece di nuovo spallucce. “Si accomodi pure.”
“Per la cronaca, non voglio che la conversazione venga registrata,” disse Luke.
“Tutte le celle vengono riprese dalle telecamere di sorveglianza ventiquattr’ore al giorno,” disse adesso la guardia. “Ma non c’è audio.”
Luke annuì. Non credette a una parola. “Bene. Urlerò, se mi serve aiuto.”
La guardia sorrise. “Non sentiremo.”
“Allora agiterò le mani.”
Entrambe le guardie risero. “Sarò in fondo al corridoio,” disse uno dei due. “Picchi forte sulla porta quando vuole uscire.”
La porta fece un fragoroso suono metallico quando venne aperta la serratura, poi si aprì, mansueta. Da qualche parte, qualcuno li osservava davvero.
Aprendosi, la porta mostrò una minuscola e tetra cella. La prima cosa che Luke notò fu la toilette di metallo. Sopra aveva un rubinetto per l’acqua, in