Era difficile mettere da parte armi e sospetti per concentrarsi invece su animali di peluche e tutine. Però, controllando qualche negozio, in qualche modo divenne facile. Scoprì di divertirsi proprio a fare shopping per la nipotina, anche se non aveva ancora neanche due mesi e, in realtà, non le sarebbe importato di alcun regalo le avesse preso. Trovò difficile non arraffare ogni cosetta carina che trovava per comprarla. Dopotutto, non era responsabilità di una nonna viziare i nipoti?
Mentre pagava gli acquisti fatti al terzo negozio che visitava, ricevette un messaggio. Non perse tempo a controllare. Nelle ultime settimane aveva avuto una piccola speranza ogni volta che riceveva una telefonata o un messaggio, pensando che potesse essere Duran o qualcun altro del bureau. Si rimproverava mentalmente quando rimaneva delusa dallo scoprire che non era il bureau, ma Allen. Una volta superato il fastidio di non venire più chiamata dal bureau, comprese che era felice di sentirlo – era sempre felice di sentirlo, in effetti.
«Allen, devi aiutarmi» scherzò rispondendo al telefono. «Sto facendo spese per Michelle e tutto quello che vedo voglio comprarglielo. È normale?»
«Non lo so» disse Allen. «Nessuno dei miei figli si è sistemato e mi ha fatto nonno, ancora.»
«Stammi a sentire. Comincia a risparmiare.»
Allen rise, un suono che a Kate stava cominciando a piacere parecchio. «Quindi è stanotte, eh?»
«Sì. E so di aver già cresciuto una figlia e so cosa aspettarmi, ma sono un po’ terrorizzata.»
«Ah, sarai fantastica. Dato che vuoi parlare di terrore… stasera esco con i miei ragazzi per bere una cosa. E non bevo più di due drink in un’uscita unica da circa cinque anni.»
«Buon divertimento, allora.»
«Mi chiedevo se magari vorresti che ci vedessimo domani a cena. Possiamo raccontarci le nostre storie di sopravvivenza di stasera.»
«Mi farebbe piacere. Vuoi passare da me verso le sette?»
«Mi pare ottimo. Divertiti stasera. La piccola Michelle dorme già tutta la notte?»
«Non credo.»
«Argh» disse Allen, e terminò la telefonata.
Kate mise in tasca il telefono, destreggiandosi con le borse di acquisti. Sorrise involontariamente. Era sotto al sole della sua zona preferita della città, dopo aver appena fatto shopping per una nipotina di due mesi a cui quella notte avrebbe fatto da babysitter. Dato il modo in cui stava andando la giornata, voleva davvero che il bureau chiamasse?
Stava tornando a casa – una passeggiata di tre isolati da dove aveva risposto ad Allen – quando vide una bambina con una t-shirt di My Little Pony. Camminava con la madre mano nella mano, appena qualche metro davanti a lei, che andava nella loro direzione. Aveva cinque o sei anni, i capelli biondi raccolti in una coda di cavallo che solo le cure di una madre potevano creare. Aveva gli occhi azzurri e un naso appuntito che la faceva sembrare un elfo. E fu quella caratteristica a inviarle una punta di disperazione nel cuore.
Un’immagine le passò per la mente, una bambina quasi identica a questa. Ma nell’immagine la bambina aveva terra e sporcizia sul viso, e stava piangendo. Le luci delle auto della polizia brillavano dietro di lei.
L’immagine fu così forte che costrinse Kate a smettere di camminare per un attimo. Distolse gli occhi dalla bambina, non volendo sembrare inquietante o strana. Si aggrappò a quell’immagine nella testa e fece del suo meglio per trovare il ricordo a essa associato. Le giunse gradualmente, e quando lo fece si svolse lentamente, come se Kate stesse leggendo il verbale di un caso.
Bambina di cinque anni, trovata tre giorni dopo la denuncia della scomparsa. Posta in un capanno da pesca dell’Arkansas con i cadaveri dei genitori. I genitori erano la quinta e sesta vittima di un serial killer che aveva terrorizzato l’Arkansas per quasi quattro mesi… un assassino che Kate alla fine aveva beccato, ma solo dopo che questi aveva mietuto un totale di nove vittime.
Kate era consapevole di stare improvvisamente immobile come una statua sulla strada, ma pareva non riuscire a muoversi. Quel caso l’aveva perseguitata per un po’. Così tanti vicoli ciechi, così tante false piste. Aveva corso in cerchio, incapace di trovare l’assassino mentre lui continuava ad aggravare il conteggio dei cadaveri. Dio solo sapeva che cosa aveva pianificato per quella bambina.
Però l’hai salvata, si disse. Alla fine l’hai salvata.
Kate ricominciò lentamente a camminare. Non era la prima volta che un’immagine del suo passato lavorativo le si schiaffava nella testa e la distraeva. A volte arrivavano casualmente, sebbene dal nulla. Ma c’erano altre volte in cui arrivavano forti e rapide, come flashback da stress post-traumatico.
L’immagine della bambina dell’Arkansas era una via di mezzo. E Kate ne fu grata. Quel caso particolare l’aveva quasi costretta a smettere di lavorare come agente nel 2009. Era stato sconvolgente per l’animo, a sufficienza perché Kate chiedesse due settimane di pausa dal lavoro. E, d’un tratto, per quasi un secondo mentre tornava a casa con in mano dei regali per la sua nipotina, Kate si era sentita spinta indietro nel tempo.
Erano passati quasi dieci anni da quando aveva salvato quella bambina. Kate si chiese dove fosse – si chiese se fosse sopravvissuta al trauma.
«Signora?»
Kate batté le palpebre, saltando un po’ al suono di una voce sconosciuta di fronte a lei. C’era un ragazzino in piedi davanti a lei. Sembrava preoccupato, come se non fosse sicuro se rimanere lì o scappare via.
«Sta bene?» chiese. «Sembra… non lo so. Che stia male. Come se stesse per svenire.»
«No» disse Kate scuotendo la testa. «Sto bene. Grazie.»
Il ragazzo annuì e proseguì per la sua strada. Kate cominciò a camminare di nuovo, strappata via da un buco del passato che presumeva di non aver ancora chiuso del tutto. Mentre si avvicinava sempre più a casa, cominciò a chiedersi quanti di questi buchi del passato fossero rimasti scoperti.
E se i fantasmi del suo passato avrebbero continuato a perseguitarla finché anche lei non fosse diventata un fantasma.
CAPITOLO DUE
Kate trascorse l’ora successiva pulendo casa, anche se l’aveva già fatto prima di uscire per le spese. Si sentiva strana a essere così in ansia all’idea che Michelle venisse a casa sua. Melissa aveva vissuto in quella casa durante gli anni delle superiori, perciò quando veniva a farle visita (non abbastanza spesso, secondo l’opinione di Kate), Kate non sentiva il bisogno che la casa fosse immacolata. Allora perché era così preoccupata di come apparisse a una bambina di due mesi?
Magari è una bizzarra specie di nidificazione da nonna, pensò grattando il lavandino del bagno… una stanza che sapeva per certo che sua nipote non avrebbe neanche visto, ancor meno usato.
Mentre risciacquava il lavandino, suonò il campanello. Fu invasa da un’euforia per la quale non era preparata. Aveva un sorriso che andava da un orecchio all’altro quando aprì la porta. Melissa era dall’altra parte, con Michelle sul suo seggiolino per la macchina. La bambina era addormentata, una spessa coperta avvolta intorno alle gambe.
«Ehi, mamma» disse Melissa entrando in casa. Diede una rapida occhiata in giro e alzò gli occhi al cielo. «Quanto hai pulito oggi?»
«Mi appello al quinto emendamento» disse Kate abbracciando la figlia.
Melissa sistemò il seggiolino con cautela sul pavimento e lentamente scoprì Michelle. La sollevò e la porse dolcemente a Kate. Era passata quasi un’intera settimana da quando Kate era andata a trovare Melissa e Terry, ma quando prese in braccio Michelle parve molto di più.
«Che cosa avete in progetto di fare tu e Terry stasera?» chiese Kate.
«Non molto, in realtà» disse Melissa. «Ed è questa la