Tornai a casa stanca quella sera. Avrei voluto fare i bagagli e partire quella notte stessa per un posto nuovo, così senza decidere, senza una meta precisa. Lo facevano tanti giovani, ormai era una cosa alla moda, quasi un obbligo per chi era riuscito a mettere qualche soldo da parte. Quindi avrei potuto farlo anche io. Ma rimandai la preparazione dei bagagli, rimandai quella partenza a momenti migliori. Posai il regalo che gli altri mi avevano dato prima di salutarci e augurarci “buona fortuna per il futuro”, frase che sapeva un po’ di rassegnazione e portava nascosta in sé una nota amara che diceva “tu da oggi non sei più affare nostro”. Mi regalarono un orologio. Regalarono un orologio anche a quelli che erano andati via prima di me, a quelli che si erano sposati, a quelli che avevano avuto dei figli. Perché si regala sempre un orologio? E’ davvero così importante ricordare ad una persona che il suo tempo è destinato a passare e alla fine lei scadrà come un cartoccio di latte abbandonato da tutti sul fondo di uno scaffale in un piccolo supermercato di provincia? Solo ai funerali non si regala un orologio al defunto, forse perché per lui il tempo non esiste più. Il tempo non è nulla paragonato all’eternità stessa che lo contiene. Aprii il pacchetto, guardai l’orologio, segnava già l’ora giusta. Qualcuno si era preoccupato di sistemarla perché fosse già pronto all’uso e io non fossi costretta a perdere tempo, appunto. Perdere del tempo per sistemare il tempo, che curioso paradosso! Posai la scatola richiusa sulla mensola del camino, da dove lo avrei ripreso prima di partire. Forse.
5
Cleveland era ormai vicina. Cindy si era appisolata durante l’ultimo tratto del viaggio. Eravamo rimaste noi due sole nel vagone, la osservavo con attenzione perché lei non poteva vedermi. La invidiavo perché la vedevo felice, sicura di sé, della sua esistenza. Una ragazza più giovane di me che aveva vissuto più di quanto non avessi saputo fare io, che aveva fatto delle scelte conscia di avere la sua vita stretta in pugno. La “sua” vita. Mi chiedevo per quale ragione avessi parlato con lei, rispondendo alle sue domande e ponendomene a mia volta delle altre su di lei. Non trovavo una risposta a questa domanda. Non mi conoscevo abbastanza, evidentemente. Sudavo, nonostante i turbini di aria fresca che riempiva il nostro vagone e che penetrava fino in fondo alle ossa. Lei se ne stava lì tranquilla, beatamente cullata dai suoi sogni. Poi il treno cominciò a rallentare, accompagnato dallo stridio fastidioso prodotto dalle ruote e dai freni, quello che anticipa l’arrivo nella stazione. Cindy si svegliò e stirò le braccia come facevo anche io ogni mattino da bambina nei primi secondi che seguivano il risveglio, quando ancora le paure della notte non erano ricomparse nella mia testa per ricordarmi quale fosse la mia realtà. Mi sorrise.
«Sono crollata come una pera, scusami!».
Ricambiai il suo sorriso con il mio. Ero sincera e meravigliata di esserlo al tempo stesso.
«Ti sei riposata un po’», confermai. Lei annuì.
«Tu che cosa hai fatto?».
«Ho guardato fuori dal finestrino».
«Per tutto il tempo? Quanto ho dormito?».
Guardai l’orologio.
«Quasi due ore».
«Però! Niente male!».
Non capivo a cosa si riferisse. Cosa non era “male”? Il fatto di aver dormito per quasi due ore sopra un ammasso di ferraglia in movimento in mezzo alla campagna dell’Ohio? La guardai aggrottando la fronte.
«Il tuo orologio! Niente male!».
«Ah, grazie. E’ un regalo».
«Del tuo uomo?».
Abbassai lo sguardo. Quella ragazza stava lentamente dissotterrando tutti i cadaveri che io con pazienza e dedizione avevo a fatica ricoperto di terra e dimenticato. Risposi, a metà.
«Non ho un uomo, sono sola. E’ un regalo dei miei ex colleghi dell’ospedale, me lo hanno dato il giorno in cui ho lasciato il lavoro, durante la festa di addio».
Lei mi guardò, squadrandomi dalla testa ai piedi. Mi stava osservando, mi sentivo studiata nei dettagli, come una cavia da laboratorio alla quale fosse stato iniettato un virus letale e si fosse voluto misurare il tempo necessario per vederla morire. Improvvisamente mi parve disinteressata al mio orologio, ora era concentrata su di me, sul mio aspetto, sulla mia infelicità così come lei la percepiva in quel momento. Forse stava pensando di “sacrificarsi” per me, di prendere in mano le redini della mia vita per condurla da qualche parte. La “mia” vita, ancora una volta. Alzai le mie barriere o quel poco che ne restava, non volevo tornare a soffrire. Ero ormai esperta e riconoscevo i sintomi che anticipano l’arrivo della sofferenza con assoluta sicurezza. In quanto a sofferenza ero davvero infallibile, una sulla quale si poteva davvero contare. Decisi che il nostro sarebbe stato solo un incontro per un viaggio. Non sarei andata da lei, a casa sua. O forse anche si, per poche ore, pochi giorni, pochi anni o forse per sempre.
Il treno si fermò e una voce registrata diffusa nelle carrozze annunciò che eravamo arrivati. Cindy si alzò, si aggiustò per bene la camicia nei pantaloni. Era stranamente in ordine nonostante le tante ore che aveva passato seduta sulla sua poltrona. Sentii il suo profumo. Era fresco, come appena messo. In quel momento notai le due grandi valige che aveva portato con sé in quel viaggio, mi meravigliai di come avesse potuto trasportarle da sola, senza l’aiuto di nessuno. Mi alzai e sentii che il mio corpo rilasciava invece un cattivo odore di sudore. Mi vergognai al punto che decisi di sedermi nuovamente. Avrei aspettato che lei fosse uscita dal vagone per rialzarmi senza timore di battezzare l’aria con la mia fragranza di fogna. Ma lei non badò affatto a me. Forse aveva capito il mio problema, o forse no. Non lo seppi mai.
«Io vado avanti, ci vediamo qua fuori», mi disse con un sorriso.
«Va bene, prendo la mia valigia e ti raggiungo subito».
Lei mi guardò mentre allungavo le braccia verso lo scomparto posto in alto, sopra la mia testa. Non si mosse.
«Tutto qui? Questo è tutto il tuo bagaglio?».
«Si. Ho portato poche cose. Il resto l’ho lasciato a casa, non mi servirà molto qui». Lei mostrò il lato perplesso della sua espressione.
«Se lo dici tu Mel! Dai forza, andiamo prima che il cavallo decida di ripartire con gli asini sopra!».
«Scusa?».
«Nulla, è un modo di dire locale! Noi saremmo gli asini, tutto qui!».
Scoppiò a ridere, era evidentemente felice di essere ritornata a casa, la sua casa, per ricondurre la vita, la sua vita. E per trascinarsi dietro anche i resti sgualciti della mia esistenza. Camminava davanti a me e io la seguivo, come un cane legato ad un invisibile guinzaglio segue il suo padrone. Ammiravo quanto fosse bello il suo corpo di giovane venticinquenne, ne invidiavo il fisico che sembrava essere stato creato dalle mani sapienti