“Un piccolo segno del mio amore e del mio affetto,” le disse.
Le stava divinamente addosso, l’oro brillava alla luce, riflettendo ogni cosa.
L’anello gli bruciava nella tasca e Thor giurò di darglielo al momento giusto. Quando avrebbe trovato il coraggio di dirle la verità. Ma non era il momento, per quanto sperasse che lo fosse.
“Quindi, come vedi puoi tornare,” disse Thor accarezzandole la guancia con il dorso della mano. “Devi tornare. La tua gente ha bisogno di te. Hanno bisogno di una guida. L’Anello senza una guida non è niente. Guardano a te per essere condotti. Andronico occupa ancora metà dell’Anello. Le nostre città hanno ancora bisogno di essere ricostruite.”
La guardò negli occhi e vide che stava pensando.
“Di’ di sì,” le fece pressione. “Ritorna con me. Questa torre non è il posto giusto dove una giovane donna possa trascorrere il resto dei suoi giorni. L’Anello ha bisogno di te. Io ho bisogno di te.”
Thor tese una mano in fuori e rimase in attesa.
Gwendolyn abbassò lo sguardo soppesando la situazione.
Poi alla fine allungò una mano e la pose in quella di Thor. Gli occhi le si fecero più brillanti, scintillanti di amore e calore. Thor capì che la Gwendolyn di un tempo stava lentamente tornando, piena di vita, amore e gioia come una volta. Era come un fiore che si stava rischiudendo davanti ai suoi occhi.
“Sì,” disse con delicatezza, sorridendo.
Si abbracciarono e lui la tenne stretta, giurando di non lasciarla mai più.
CAPITOLO SETTE
Erec aprì gli occhi e si trovò steso tra le braccia di Alistair, con lo sguardo fisso nei suoi occhi blu come il cristallo che brillavano di amore e calore. Lo guardava con un sorriso appena accennato ai lati della bocca ed Erec percepì il calore che irradiavano le sue mani, scorrendo da lì a tutto il corpo. Si controllò e si accorse di essere completamente sano, rinato, come se non fosse mai stato ferito. Lei l’aveva riportato dalla morte.
Erec si mise a sedere e guardò con sorpresa gli occhi di Alistair, ritrovandosi a chiedersi ancora una volta chi lei fosse veramente e come potesse avere tali poteri.
Mettendosi seduto e strofinandosi la testa, improvvisamente ricordò: gli uomini di Andronico. L’attacco. La difesa della gola. Il masso.
Balzò in piedi e vide tutti i suoi uomini che lo guardavano come se fossero in attesa della sua resurrezione e di un suo comando. I loro volti esprimevano sollievo.
“Per quanto tempo sono rimasto senza conoscenza?” chiese ad Alistair, agitato. Si sentiva in colpa per aver abbandonato i suoi uomini così a lungo.
Ma lei gli sorrise con dolcezza.
“Solo per un momento,” gli rispose.
Erec non riusciva a capire come potesse essere. Si sentiva così ristorato, come se avesse dormito per anni. Sentiva una nuova forza nei suoi passi mentre balzava in piedi, si voltava e correva verso l’ingresso della gola controllando il suo lavoro: il grosso masso che aveva colpito ora bloccava il passaggio e gli uomini di Andronico non potevano più passare da quella parte. Erano riusciti a realizzare l’impossibile e avevano respinto un esercito così grande. Almeno per ora.
Prima che potesse esultare, Erec udì un improvviso grido provenire dall’alto e sollevò lo sguardo: lì, in cima alla rupe, c’era un suo uomo che urlava, poi barcollò all’indietro e precipitò a terra, morto.
Erec osservò il cadavere e vide una lancia che lo trafiggeva, poi risollevò lo sguardo e vide una caotica attività: grida e urla si levavano ovunque. Davanti ai suoi occhi decine di uomini di Andronico apparivano sulla sommità, combattendo corpo a corpo con gli uomini del duca, sferrando un colpo dopo l’altro. Erec capì subito cosa stava succedendo: il comandante dell’Impero aveva diviso le sue forze, mandandone una parte nella gola e spedendo gli altri sulla montagna.
“IN CIMA!” gridò Erec. “ARRAMPICHIAMOCI!”
Gli uomini del duca lo seguirono mentre correva lungo il ripido versante, spada alla mano, arrancando per salire tra la roccia e la polvere. A fasi alterne avanzava e scivolava indietro aggrappandosi con le mani, graffiandosi contro le pietre, tenendosi stretto e facendo del suo meglio per non cadere all’indietro. Correva, ma la salita era talmente ripida che si trattava più di una scalata che di una corsa: ogni passo era una dura battaglia, le armature sferragliavano tutt’attorno a lui mentre i suoi uomini procedevano ansimando e sbuffando, come capre di montagna, diretti verso la cima.
“ARCIERI!” gridò Erec.
In basso numerose decine di arcieri del duca che stavano scalando la montagna si fermarono e presero la mira verso l’alto. Scoccarono e fecero volare una raffica di frecce: numerosi soldati dell’Impero gridarono e caddero all’indietro, precipitando lungo la parete rocciosa. Un corpo rotolò verso Erec, ma lui lo scansò evitandolo per un pelo. Uno degli uomini del duca non fu altrettanto fortunato: un cadavere lo colpì e lo mandò a cadere a terra, gridando e morendo schiacciato dal peso dell’avversario.
Gli arcieri del duca scavarono e si appostarono su e giù dalla montagna, tirando ogni volta che un soldato dell’Impero faceva capolino con la testa oltre il bordo del dirupo per tenerli a bada.
Ma la lotta in cima era serrata, corpo a corpo, e non tutte le frecce andarono a segno: una mancò il colpo e andò accidentalmente a conficcarsi nella schiena di uno degli uomini del duca. Il soldato gridò e si inarcò, così che un uomo dell’Impero, cogliendo l’occasione, lo pugnalò mandandolo a cadere all’indietro, giù dalla montagna. Ma non appena il soldato dell’Impero fu esposto, un altro arciere gli tirò una freccia nello stomaco facendo precipitare anche lui nel vuoto.
Erec raddoppiò gli sforzi e così fecero anche quelli che lo circondavano, scattando di corsa verso l’alto. Avvicinandosi alla cima, quando si trovava solo a pochi metri, scivolò e iniziò a cadere. Si dimenò, allungò un braccio e si aggrappò con forza a una spessa radice che emergeva dalla pietra. Si tenne lì con tutte le sue forze, penzolante, poi si tirò su, si rimise sui piedi e continuò la risalita.
Raggiunse la cima prima degli altri e corse in avanti lanciando un grido di battaglia, la spada levata, felice di difendere i suoi uomini che stavano detenendo le loro posizioni sulla sommità ma che iniziavano ad essere spinti indietro. Non c’erano che poche decine dei suoi uomini lassù ed erano tutti impegnati in combattimenti corpo a corpo con i soldati dell’Impero che erano il doppio di loro. A ogni secondo che passava apparivano sempre più soldati nemici sulla cima.
Erec combatteva come un pazzo, attaccando e pugnalando due soldati alla volta, liberando i suoi uomini. Non c’era nessuno in battaglia veloce quanto lui, non esisteva un uomo simile in tutto l’Anello, e con due spade in mano, colpendo in tutte le direzioni, Erec mise alla luce le sue doti uniche di campione dell’Argento cercando di sconfiggere l’Impero. Era un’ondata di distruzione incarnata da un solo uomo: ruotava, si abbassava, colpiva, si lanciava sempre più a fondo tra i soldati nemici. Scansava colpi, dava testate, parava e procedeva così velocemente che non gli serviva neanche usare lo scudo.
Erec passò tra di loro come una ventata, atterrando decine di soldati prima che avessero anche solo la possibilità di difendersi. E gli uomini del duca, tutt’attorno a lui, recuperarono.
Dietro di lui anche gli altri uomini del duca raggiunsero la cima, guidati da Brandt e dal duca stesso, che si portarono a combattere al fianco di Erec. Presto il vantaggio si invertì e si ritrovarono a spingere indietro l’esercito dell’Impero, mentre i cadaveri si ammassavano tutt’attorno.
Erec si mise in guardia contro l’ultimo soldato dell’Impero rimasto in cima e lo portò ad arretrare per poi calciarlo e farlo cadere dal lato dell’Impero, gridando e precipitando all’indietro.
Erec e i suoi uomini rimasero tutti lì a riprendere fiato. Erec attraversò l’ampia pianura fino al crinale dalla parte dell’Impero. Voleva vedere cosa ci fosse in basso. L’Impero aveva saggiamente smesso di mandare uomini lassù,