Godfrey sapeva che dovevano agire velocemente, eppure il cuore gli batteva forte in petto ogni volta che pensava di mettere in atto quella mossa coraggiosa. La sua mente gli diceva di andare, ma il suo corpo restava esitante, incapace di raccogliere tutto il coraggio necessario.
Godfrey ancora non credeva che fossero lì, che ce l’avessero veramente fatta a passare entro le mura. Era come un sogno, un sogno che diventava sempre più brutto. L’intontimento causato dal vino si stava dissipando, e più svaniva più lui si rendeva conto che la sua idea era stata profondamente sbagliata.
“Dobbiamo uscire da qui,” bisbigliò Merek chinandosi verso di lui. “Dobbiamo fare qualcosa.”
Godfrey scosse la testa e deglutì, con il sudore che gli bruciava gli occhi. Una parte di lui sapeva che Merek aveva ragione, ma un’altra parte lo costringeva ad aspettare il momento giusto.
“No,” rispose. “Non ancora.”
Godfrey si guardò attorno e vide ogni genere di schiavi incatenati e trascinati attraverso le strade di Volusia, non solo schiavi di pelle scura. Era come se l’Impero fosse riuscito a catturare ogni sorta di razza da ogni angolo del mondo, chiunque non appartenesse alla razza dell’Impero, chiunque non avesse pelle gialla e lucida, imponente altezza, spalle larghe e le piccole corna dietro le orecchie.
“Cosa stiamo aspettando?” chiese Ario.
“Se corriamo in mezzo alle strade,” disse Godfrey, “potremmo essere troppo evidenti. Potremmo anche essere catturati. Dobbiamo aspettare.”
“Aspettare cosa?” insistette Merek con la frustrazione nella voce.
Godfrey scosse la testa disorientato. Si sentiva come se il suo piano stesse crollando.
“Non lo so,” disse.
Svoltarono a un’altra curva e così facendo l’intera città di Volusia si aprì davanti a loro. Godfrey guardò quella veduta sbalordito.
Era la città più incredibile che avesse mai visto. Godfrey, essendo figlio di un re, aveva visitato grosse città, città grandiose e ricche, fortificate. Aveva visitato alcune delle più belle città del mondo. Poche erano in grado di competere con la maestosità di Savaria, di Silesia, o ancor più della Corte del Re. Non si lasciava stupire facilmente.
Ma non aveva mai visto nulla del genere. Era una combinazione di bellezza, potere e ricchezza. Soprattutto di ricchezza. La prima cosa che colpì Godfrey furono tutti gli idoli. Ovunque in giro per la città erano collocate statue di idoli e dei che Godfrey neppure conosceva. Uno sembrava essere un dio del mare, un altro del cielo, un altro delle colline… ovunque c’erano masse di persone che si chinavano davanti ad esse adorandole. In lontananza, torreggiante sulla città, c’era un’enorme statua d’oro che si levava di una buona trentina di metri, raffigurante Volusia. Una grande folla di persone era raggruppata e china attorno ad essa.
Un’altra cosa che sorprese Godfrey furono le strade ricoperte d’oro, brillanti e immacolate, tutto meticolosamente lindo e pulito. Tutti gli edifici erano fatti di pietra perfettamente squadrata, non c’era un solo blocco fuori posto. Le strade della città si allungavano ovunque e la città sembrava distendersi all’orizzonte. Ciò che lo colpì ancora di più furono i canali e i corsi d’acqua che si intrecciavano con le vie, a volte disegnando archi, a volte cerchi, portando le azzurre correnti dell’oceano e facendo da condutture, come l’olio che faceva funzionare quella città. Tutti i canali erano pieni di vascelli dorati e decorati che si facevano aggraziatamente strada lungo quei corsi d’acqua passando tra le strade.
La città era piena di luce che rifletteva dal porto; era dominata dal sempre presente suono delle onde che si infrangevano. Disegnata a forma di ferro di cavallo la città abbracciava la linea della costa e le onde andavano a sbattere dritte contro il suo argine dorato. Tra la luce splendente dell’oceano, i raggi dei due soli sopra di loro e l’onnipresente oro, Volusia decisamente abbagliava gli occhi. A fare da cornice al tutto, all’ingresso del porto, si trovavano due torreggianti pilastri che quasi raggiungevano il cielo, come bastioni di forza.
Godfrey si rendeva conto che quella città era stata costruita per intimidire, per far vedere ricchezza, e faceva bene il suo lavoro. Era una città che mostrava progresso e civilizzazione e se Godfrey non avesse saputo a priori della brutalità dei suoi abitanti, sarebbe stata la città dove lui stesso avrebbe amato vivere. Era così diversa da qualsiasi cosa l’Anello avesse da offrire. Le città dell’Anello erano costruite per fortificare, proteggere e difendere. Erano umili e discrete, come i loro abitanti. Queste città dell’Impero, d’altro canto, erano aperte, temerarie, costruite per dimostrare abbondanza e benessere. Godfrey capiva che aveva senso: dopotutto le città dell’Impero non avevano nessuno da cui temere attacchi.
Godfrey udì del trambusto venire da davanti e quando svoltarono lungo un vicolo e dietro un altro angolo, improvvisamente si aprì un enorme cortile davanti a loro, con il porto alle spalle. Era una larga piazza di pietra, il maggior crocevia della città, con una decina di strade che da qui si dipartivano portando in direzioni diverse. Tutto questo era visibile da uno scorcio attraverso un arco di pietra che si innalzava di venti metri sulle loro teste. Godfrey capì che non appena il gruppo vi fosse passato attraverso si sarebbero tutti trovati all’esterno, esposti insieme a tutti gli altri. Non sarebbero più stati capaci di svignarsela.
Ancora più sconvolgente era il fatto che Godfrey vide schiavi che si riversavano nella piazza da ogni direzione, tutti guidati dai loro supervisori: schiavi da ogni angolo dell’Impero di ogni razza, tutti incatenati, trascinati verso un’alta piattaforma alla base dell’oceano. Gli schiavi stavano in piedi su di essa mentre ricche persone dell’Impero li osservavano attentamente e facevano delle offerte. Sembrava una vendita all’asta.
Un grido di esultanza di levò e Godfrey vide un nobile dell’Impero esaminare la mandibola di uno schiavo, uno schiavo con pelle bianca e lunghi capelli filamentosi e castani. Il nobile annuì soddisfatto e il supervisore si avvicinò slegando lo schiavo, come se avesse appena concluso una transazione d’affari. Il supervisore afferrò lo schiavo per la camicia e lo gettò giù dalla piattaforma. L’uomo volò colpendo con violenza il suolo e la folla esultò soddisfatta mentre diversi soldati si avvicinavano e lo trascinavano via.
Un altro gruppo di schiavi emerse da un altro angolo della città e Godfrey guardò uno schiavo che veniva spinto in avanti: era il più grande, più alto degli altri, forte e in salute. Un soldato dell’Impero sollevò l’ascia e lo schiavo si preparò.
Ma il supervisore si limitò a tagliare le catene e il rumore del metallo che colpiva la pietra riverberò attraverso il cortile.
Lo schiavo fissò il supervisore, confuso.
“Sono libero?” gli chiese.
Ma diversi soldati accorsero e gli afferrarono le braccia trascinandolo alla base della grossa statua dorata che si trovava nel porto, un’altra statua di Volusia con un dito puntato verso il mare e le onde che si infrangevano ai suoi piedi.
La folla si racchiuse attorno a loro mentre i soldati tenevano l’uomo giù, con la testa spinta in basso, il volto schiacciato contro i piedi della statua.
“NO!” gridò lo schiavo.
Un soldato dell’Impero si fece avanti e brandì nuovamente l’ascia, questa volta decapitando l’uomo.
La folla esultò deliziata e tutti si misero in ginocchio inchinandosi a terra, adorando la statua mentre il sangue scorreva sui suoi piedi.
“Un sacrificio alla nostra grande dea!” gridò un soldato. “Ti dedichiamo il primo e più prelibato dei nostri frutti!”
La folla esultò di nuovo.
“Non so te,” giunse la voce nervosa di Merek all’orecchio di Godfrey, “ma io non ho intenzione di farmi sacrificare per qualche idolo. Non oggi.”
Si udì un altro schicco di frusta e Godfrey vide che l’ingresso alla piazza si faceva sempre