Ma, per tornare a Giacomo Pico, che le centomila necessità del racconto mi fanno ogni tanto lasciare in disparte, è da stringere in poche parole che egli aveva sollecitamente adempiute, in quel modo che poi si dirà, le incombenze a lui date, ed era di ritorno al Finaro due settimane dopo la sua partenza, e proprio in quel giorno 26 novembre dell'anno 1447. Il cuore gli battea forte nello avvicinarsi al castello. Aveva veduto per pochi istanti Nicolosina, e gli era parsa un'altra donna. Effetto naturale delle lontananze, anche brevi, da chi siamo usi vedere ogni giorno, che ci si sente subito come stranieri alla casa. E perchè poi? Perchè eravamo avvezzi a sapere ogni più lieve atto, ogni più riposto pensamento dei nostri famigliari, e la fragil catena di tutti quei preziosi nonnulla si è malamente spezzata.
Per altro, egli non era il momento di trattenersi su quelle frasche. Mandò giù la ingrata sensazione di quel primo incontro con lei; la ebbe anzi per una fisima del suo cervello ammalato, e si presentò al marchese, per dargli ragguaglio della sua legazione. Tra le altre cose, narrò come il figlio di Marco niente avesse ottenuto dai Fregosi, e nemmanco fosse tornato da Genova; donde per avventura, si poteva conchiudere che le speranze d'un accordo non fossero tuttavia dileguate.
Ma intorno a ciò il marchese Galeotto non istava più in forse e ben sapeva che cosa pensarne, cioè che i Genovesi si studiavano di tenergli a bada la lega, e frattanto si disponevano con ogni diligenza ad assalirlo, sperando di averlo atterrato, innanzi che gli altri si fossero mossi a difenderlo. Ora, che la lega del parentado fosse per aiutarlo, non dubitava il marchese; anche pur dianzi, al suo inviato, tutti ad una avevano fatto le più solenni promesse. Quanto a sè ed alle forze raccolte nel Finaro, egli si teneva abbastanza sicuro, da credere che i Genovesi avessero per quella volta fatto male i lor conti. Questo era l'essenziale. Piuttosto, gli doleva del Bagnasco, così largo promettitore in principio, e adesso, secondo gli riferiva Giacomo Pico, tanto irresoluto e difficile a muoversi per un verso o per l'altro. Ma forse, pensava Galeotto (e questo pensiero lo consolava un tratto) la guerra, incominciata che fosse, anche al lontano amico avrebbe sgranchiato le gambe.
E la guerra stava appunto per rompere. Là, a poche miglia discosto, sulla spiaggia di Vado, che è tra Noli e Savona, i Genovesi facevano gente. Da un momento all'altro, chi sa, potevano anche apparire i primi scorridori dell'esercito nemico sulle alture della Briga, e scendere in valle di Pia. Ed era questa la nuova, che dava a messer Giacomo Pico di Bardineto il marchese Galeotto, in ricambio alle molte del suo messaggiero.
Il quale, d'ambasciatore rifattosi uomo d'armi in un subito, uscì dal borgo, varcò il torrente dell'Aquila, e, per la via più spedita, che s'inerpicava alle spalle di Monticello, corse a vedere se fossero bene asserragliati i passi di monte Tola e Calvisio. E di là, attraversata la valle di Pia, già era sulle mosse per risalire fino a Verzi, dove stavano le prime vedette del Finaro, allorquando gli venne udito di que' due cavalieri, che, provenienti dalla parte d'Isasco e delle Magne (per dove correva la via maestra da Noli al marchesato) erano discesi al guado della fiumana di Pia.
Argomentando che fossero avviati al Finaro, era corso dietro a loro.
Ma egli a piedi, e quei due a cavallo; nè aveva potuto raggiungerli.
Giunto a Castelfranco, li seppe andati oltre alla Marina; giunto alla Marina, udì che aveano proseguito alla volta del Borgo. Andò al Borgo; nessuna novella di loro. Erano dunque rimasti a mezza strada.
Così, pigliando lingua da ogni banda, aveva trovati i due forestieri all'Altino e gli era occorso con mastro Bernardo quel dialogo maledetto, che gli aveva a dar fumo di tante novità dolorose. In due settimane di lontananza, madonna Nicolosina promessa ad un altro e quest'altro già arrivato per farla sua! Ma, già; hanno il torto gli assenti!
CAPITOLO III
Dal quale apparisce che, in materia di consolazioni, Tommaso Sangonetto avrebbe potuto dar de' punti a Boezio.
Che torbidi pensieri menassero la ridda nel cervello di Giacomo Pico, è più facile argomentare che dire. Chiunque ha fieramente patito per amore, e per amore dispregiato o negletto, ci metta qualcosa dei suoi ricordi particolari e di ciò che ha veduto, udito, o letto degli altri; mescoli, aggiunga un pizzico d'acerbo, come l'hanno in gioventù i caratteri chiusi, e dopo i trent'anni ogni nato di donna, e s'avrà formato un concetto di quella stizza profonda in cui si crogiuolava lo spirito del nostro innamorato.
Sconvolto, rabbioso, tormentato da cento pazzi disegni, aveva preso a furia la strada del borgo ed era entrato per la porta di san Biagio. La meta della sua corsa doveva essere a tramontana, verso l'erta su cui torreggiava il castello; senonchè, giunto ad un crocicchio in mezzo all'abitato, parve essersi pentito; poichè, fatto un gesto di sdegno, svoltò rapidamente a sinistra e andò ad uscire da un'altra porta, che metteva sulla strada di Calice.
Pervenuto colà e data una torva occhiata su in alto, dove non gli era parso dicevole andare, varcò il ponte antichissimo che cavalcava il torrente. Quel ponte era di costruzione romana, e in ogni altro caso Giacomo Pico si sarebbe fermato, come spesso soleva, a contemplarne i poderosi piloni, che da forse millequattrocent'anni sfidavano l'ira del tempo e doveano sfidarla altri quattrocento di poi, per essere divelti in quella vece da un capriccio degli uomini. Ma allora, e' non li degnò neppur d'uno sguardo, e passato sull'altra sponda del Calice, si avviò verso la ripida costa della montagna, con passo concitato e gagliardo, come se volesse pigliare d'assalto la roccia dell'Aurera, che ne incoronava la cima.
Salire al castello non aveva voluto; dal mezzo del ponte, lo aveva anzi guardato a squarciasacco; tuttavia, non sapeva allontanarsene troppo, e, risalendo la costiera di rincontro, non rifiniva di guatare lassù, verso quel nido d'avvoltoi; che tale gli pareva in quel punto il castello de' suoi signori. E dire che quelle mura gli pareano pur dianzi un nido di colombe, e che egli, per tanti giorni lontano, tra le feste, le oneste accoglienze e gli svaghi naturali del viaggio, altro non aveva in mente, altro non desiderava che di tornare a quel nido! Così facilmente mutano aspetto le cose ai nostri occhi, secondo che porta l'amore o l'odio, la benevolenza o lo sdegno!
Il Bardineto si era fermato a metà dell'erta, colle braccia incrociate sul petto e lo sguardo teso verso il castello, probabilmente divisando nell'animo tutti i particolari dell'arrivo del Cascherano, le cortesie del suocero, gli amabili rossori della sposa e i lieti conversari della nobile brigata, allorquando gli venne udito poco lunge uno stormire di frasche, come per guizzar di ramarro attraverso i cespugli.
Si volse in soprassalto, confuso e scontento, a guisa di chi si trovi colto in mal punto. Diffatti, egli non era un ramarro, nè altro animale che striscia per terra, il turbatore della sua pensosa solitudine; e bene glielo avevano indicato per un suo simile certe risa sguaiate che accompagnavano il repentino fruscìo.
Quegli che rideva in tal guisa era un uomo di fresca età, sebbene il volto avvizzito e di fattezze non belle, nè brutte, ma semplicemente volgari, potesse farlo apparire più presso ai confini della maturità che non a quelli della beata giovinezza. Indossava un farsetto di ruvido cuoio; portava la berretta alla scapestrata, come a dire sulle ventitrè ore e tre quarti, un coltellaccio a fianco, e sulle spalle un archibugio, specie di balestro da caccia, per la cui canna si faceva scattare, a forza d'arco, una pallottola, od un sassolino.
Il Bardineto, che a prima giunta avea fatto quella faccia scontenta, si rabbonì, com'ebbe raffigurato quell'altro.
–Tommaso!—esclamò egli.—Sei tu?
–Io,