Nellâattesa, forse solo per far passare i minuti necessari ma apparendo a Vittorio un poâ indiscreto, don Colamonti gli aveva rivelato châegli stesso aveva fatto dono al Corona del cellulare, scegliendolo fra rimanenze, ormai obsolete perché di notevole dimensione, in liquidazione presso un vicino negozio, e châera sempre lui a pagargli le ricariche, essendo lâarchitetto uno dei membri del Consiglio Pastorale e della San Vincenzo e venendo utili, a volte, contatti telefonici. Il parroco aveva poi preso a parlare banalmente del tempo e, poco dopo, avevano sonato alla porta.
Come ci sâaspettava, era Attilio Corona.
Il mio amico sâera alzato e Don Giulio aveva fatto le presentazioni. Vittorio sâera un poco stupito della vigorosa stretta di mano dellâarchitetto e aveva pensato che il passato ictus si fosse sostanzialmente risolto, sebbene restasse sul Corona, quale testimonianza dellâinsulto cerebrale, una smorfia fissa sullâestremo sinistro della bocca.
Don Giulio aveva preso la parola: âOra, questore DâAiazzo, lei potrà chiedere personalmente allâamico Attilio; se però non le spiace, solo alla mia presenzaâ.
âCerto, reverendo; come le avevo anticipato ero venuto anche per essere introdotto allâarchitetto, e la ringrazio per aver stretto i tempiâ.
Il parroco aveva fatto un cenno dâapprovazione col capo e aveva invitato i due a sedersi, quindi sâera scostato dâalcuni metri, restando in piedi a portata dâorecchio: âPrego, parlino liberamenteâ.
âSenta, architettoâ¦â
ââ¦solo dottore, lo preferisco, questore DâAiazzo: non sono mai stato iscritto allâalbo, perché per la mia attività dâimpresa non sarebbe servitoâ.
Capisco. Senta, dottor Corona, la domanda potrebbe apparirle un poâ personale, ma può riguardare la nostra ricerca: mi pare che lei sia abbastanza in forze, però non ci risulta che abbia mai più lavorato dopo lâictus, sebbene lei viva piuttosto⦠mi perdoni⦠dimessamenteâ.
Silenzio.
âMi scusi ancora, come mai non aveva pensato dâintraprendere, con la sua laurea, la libera professione, quando sâera rimessa in salute? Magari anche solo come assistente in uno studio tecnico: così, tanto per arrotondareâ.
âNon avrei potutoâ.
âSì, dottor DâAiazzo, è cosìâ, sâera messo di mezzo don Colamonti, temendo forse chi sa quali sospetti verso quel suo parrocchiano che doveva sentire come amico e protetto. Sâera rivolto al Corona: âPosso dire io, Attilio?â
Lâaltro aveva fatto sì con la testa.
Il parroco aveva proseguito: âLâictus ha lasciato postumi, anche se non evidenti, e proprio per questi Attilio ottenne la pensione dâinvalidità : gli capita, ancor oggi, di perdere conoscenza, senzâavvisaglie. Può succedere in due modi, come ho constatato io stesso: o che egli semplicemente svenga, rischiando di contundersi se non câè nessuno accanto a trattenerlo dallo stramazzare, oppure che per un certo tempo resti in istato di estraniazione, pur rimanendo in piedi e continuando a interagire col mondoâ.
âVale a dire senza perdere i sensi, ma non essendo presente a sé stessoâ.
âSì, e non avendone poi alcuna memoria, come se fosse caduto in trance. I casi peggiori sono forse proprio questi, perché potrebbe farsi anche più male, persino restare ucciso se, per esempio, essendo in strada finisse sotto unâauto o un tramâ.
âI medici cosa ne dicono?â
âNessuna curaâ, aveva ripreso la parola lâinteressato.
Gli aveva chiesto Vittorio: âDopo che torna in sé, lei non rammenta nemmeno qualcosina, che so, anche solo un flash dâimmagini o un quid di suoni?â
âDopo esser tornato dal rapimento, come lo chiamo io, non ricordo assolutamente niente. Lei capisce che mi sarebbe impossibile conservare un lavoro; ci avevo provato, sa? dopo la morte di mia madre, impiegandomi presso un geometra, ma⦠insomma, era stato un dramma. Mâero dimesso io stesso, per non mettere in imbarazzo il principale e i colleghi. A parte queste cose personalissime, questore DâAiazzoâ â aveva calcato su personalissime mentre, per un attimo, gli occhi gli erano divenuti non belli â âio non so quanto possa servire, a loro della Polizia, parlare con me dei delitti di quellâassassino seriale: quello che so sulle vittime, lâho già detto al pubblico ministero. Comunque, sono disposto a risponderle, ma lei mi chieda con precisioneâ: aveva parlato in tono deciso, come lâuomo abituato a dar ordini che doveva essere stato ai tempi della sua attività dâimpresa.
âComâerano i vostri rapporti col personale?â
âNon erano soddisfacenti. Come avevo già detto al giudice, il personale era negligente, sebbene noi facessimo appieno il nostro dovere di leggeâ.
âQuei cinque uccisi dal Mostro erano solo negligenti, oppure indisciplinati o⦠persino qualcosa di peggio? Sappiamo châerano anni di contestazione durissima nelle aziendeâ.
âSenta, questore, magari le dico prima qualcosa sulla mia famiglia, così capirà meglioâ.
âCasata ottima!â non sâera trattenuto il parroco.
âTi ringrazio, don Giulio. Ebbene, questore, mio padre, orfano di padre artigiano morto in un incidente sul lavoro, aveva dovuto iniziare a lavorare allâetà di dodici anni, come apprendista e poi come muratore presso uno zio, piccolo artigiano edile. Però suo desiderio era salire e, stringendo i denti, aveva studiato da geometra frequentando una scuola serale. Nonostante gli ostacoli, era giunto al diploma a soli diciannove anni. Ne era seguito un impiego municipale conquistato per concorso. Lâaveva però dovuto lasciare quasi immediatamente, perché era stato chiamato alle armi con la propria leva. Sâera ormai in guerra ed egli aveva servito in Sicilia in una delle batterie costiere, come sottotenente di complemento. Nel luglio 1943, durante lo sbarco anglo americano, era stato fatto prigioniero con tutto il suo reggimento e relegato in un campo del Texas, da cui era stato rimpatriato solo a fine guerra, riprendendo, comâera nel suo diritto, il proprio posto nel Comune di Torino. Era stato allâinizio del 1947 che mio padre aveva conosciuto mia madre, durante una serata a casa di comuni amici. Mamma diceva châera stato immediato lâinnamoramento fra papà e lei, seguito dopo breve tempo dalla decisione di sposarsi. Intanto mio padre aveva cambiato lavoro, assunto come direttore tecnico dalla piccola azienda che sarebbe divenuta quella di famiglia. Mia nonna paterna era ormai morta, fin dai primi giorni di guerra, mitragliata per strada dal pilota dâuno di quei caccia-cecchini francesi che la propaganda fascista chiamava con dileggio i Pippo, ma che facevano non poco male aglâinnocenti civili. Anche la nonna materna era rimasta uccisa in guerra, sotto il gran bombardamento di Torino nella notte fra il 12 e il 13 luglio 1943, quando mia madre aveva da poco compiuto i ventâanni. Solo il nonno materno, direttore di banca, era sopravvissuto al conflitto, ma era poi mancato dâinfarto lâanno successivo al matrimonio dei miei e mia madre ne aveva ereditato un discreto patrimonio: era il 1947. Due anni dopo, ero appena nato io, il proprietario della ditta dove lavorava papà aveva deciso di cederla e, grazie al capitale della mamma e a mutui bancari, i miei genitori erano