In Giudea e in quanto resta della sua capitale rimangono gli ebrei poveri, alla cui guida è posto il re fantoccio Godolia, già primo ministro e traditore filo babilonese. Non molto tempo dopo questo sovrano viene assassinato e il regno di Giuda, da questo momento, non è più tale, il territorio diviene, anche formalmente, soggetto a Babilonia. Secondo il profeta Geremia si assiste inoltre, negli anni 582/581 a.C., a unâaltra deportazione che riguarda certi palestinesi che avevano tentato unâestrema resistenza in connivenza con moabiti e ammoniti (Ger 52,30).
Insomma, una larga parte del popolo ebraico, a causa delle successive deportazioni, vive ormai in esilio, comunemente detto la servitù babilonese.
Lâesilio crea una netta separazione nella storia religioso-politica dâIsraele.
In Giudea coloro che restano continuano il culto dovâera sorto il tempio, mantenendo diretti legami col passato, e non è del tutto esclusa la composizione biblica: forse tra i rimasti in patria e non fra gli esiliati nasce il libro delle Lamentazioni, opera dâignoto autore erroneamente attribuita in passato a Geremia, cinque componimenti poetici scritti secondo lo stile e il ritmo degli antichi canti funebri giudaici, in cui si riflette il tormento per la perdita dei cari esiliati o uccisi, per la scomparsa della nazione e la devastazione della capitale e del tempio, per il venir meno del sacerdozio e dei sacrifici rituali.
Si tratta d'un particolare ritmo funebre, detto kinah, in cui manca un elemento: si tratta dâun artificio stilistico per evidenziare la mancanza della persona scomparsa, in questo caso la città di Gerusalemme personificata.
Quanto ai deportati, allâinizio quegli stessi pensieri e la personale sofferenza dellâesilio li mettono in grave crisi; tuttavia la forza della tradizione giudea, sia orale sia espressa per iscritto nei testi dei profeti antichi e in una prima stesura dellâopera del Deuteronomista, fonte biblica di cui parlerò nel prossimo capitolo, testi portati seco da sacerdoti e scribi, rende il luogo e lâepoca, nella riflessione teologica dei deportati espressa in primo luogo da Ezechiele e, verso la fine dellâesilio, dal Deutero Isaia autore dei capitoli da 40 a 55 del libro dâIsaia, estremamente favorevoli a una maturazione della fede dâIsraele. La servitù babilonese è a un certo punto concepita dai più colti come costruttiva ira del Signore, rivolta non tanto a punire le colpe, vale a dire la noncuranza per il Dio dâIsraele dâuna parte degli Ebrei e addirittura lâidolatria di altri, ma a causare il positivo pentimento e il ritorno al pieno culto per Jahvè.
Gli esuli sono normalmente seguaci della fonte biblica Deuteronomista, influenzata dai profeti pre-esilici egualitari e filo-popolari, ma tra essi non si trova il profeta Ezechiele che non solo ha un vocabolario e uno stile differenti, ma pure idee legali dissimili, le quali passano a un gruppo di seguaci, i cui studi confluiranno, dopo il ritorno a Gerusalemme, nella scuola teologica sacerdotale, composta da raccoglitori e studiosi di tradizioni in funzione del futuro, ai quali dobbiamo scritti come il libro del Levitico e la storia della Creazione nel primo capitolo della Genesi. Lâidea di Jahvè il Creatore ha grande importanza anche nel Deutero Isaia, che concepisce inoltre la scena di Jahvè, assiso sul trono nei cerchi celesti, che dichiara solennemente dâessere il primo e lâultimo e che al di fuori di lui non câè altro iddio, perché gli dèi dâaltri popoli sono solo idoli di pietra o di legno che non possono danneggiare né aiutare nessuno: un chiaro passaggio dallâenoteismo al monoteismo.
Nel formarsi dâun rigoroso monoteismo, viene creandosi la tradizione spirituale del popolo eletto da Jahvè che si riflette per iscritto nei nuovi profeti e si rispecchierà nel Pentateuco, nei sei libri storici a seguire e in salmi.
Dunque Babilonia diviene il luogo della salvezza: entra nella coscienza collettiva l'idea che Dio ha punito Israele per il suoi peccati dâidolatria e indifferenza verso di lui solamente perché meditasse. Nasce, in altre parole, una più raffinata concezione di Dio, ci si rende conto che non sâè trattato di vera ira divina, bensì dâaffezione per quel suo popolo eletto che Jahvè ha voluto si crogiolasse nel dolore solo perché tornasse a lui. In questi anni sâacquista una nuova conoscenza di Dio scoprendo che la storia del popolo ebraico è interamente storia salvifica guidata da lui. Sorge la convinzione che Jahvè ha voluto gli Ebrei nella stessa terra che, secondo le tradizioni orali, era stata di Abramo, perché dopo lâespiazione Israele seguisse le orme del patriarca: i profeti Ezechiele e Deutero Isaia ragionano sul passato e intendono non solo che la servitù babilonese, come tutti i mali precedenti, ha una causa precisa, il peccato dâidolatria di Israele, ma pure un fine provvidenziale, la sua purificazione per il ritorno a Dio, per una nuova creazione, un nuovo esodo verso Canaan, una novella alleanza dopo quella sul Sinai e un nuovo regno di Gerusalemme. Il dolore serve a redimere, come viene espresso dal Deutero Isaia nei carmi del Servo di Jahvè, un concetto che avrà il suo culmine in Gesù Cristo. Dopo aver compreso che lâamore divino per Israele non è venuto meno, i profeti in esilio cominciano inoltre a capire che bisogna essere i testimoni di Dio, anzitutto, con un comportamento esemplare anche al fine di convertire gli altri popoli alla fede in lui: Jahvè non solo vuole rinnovamento e vita per Israele, ma desidera che siano estesi a tutto il mondo, ciò che si compirà secoli dopo con Gesù e la sua Chiesa evangelizzatrice.
Cristo, con un richiamo ai carmi del Deutero Isaia, verrà presentato nel vangelo come lâinnocente servo di Dio che soffre per la salvezza di tutto il genere umano: così come il popolo ebraico, analogamente al Servo di Jahvè, ha penato per la schiavitù babilonese in funzione della liberazione e del ritorno a Gerusalemme, così soffrirà il Servo di Jahvè-Gesù per liberare gli uomini dalla schiavitù al peccato e indirizzarli alla Nuova Gerusalemme, il Regno di Dio: âEd egli â il Risorto â disse loro â ai due discepoli che, non credendo più, stavano fuggendo verso Emmaus dopo la sua crocifissione e morte â: 'Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella gloria?'â(Lc 24, 25 s).
La liberazione dallâesilio babilonese è recepita religiosamente come il segno divino del perdono (Ez capitoli da 41 a 48. V. anche Esdra, 1, 1-9); essa è attribuita teologicamente allâintervento di Jahvè nel cuore di Ciro lâaffrancatore che il Deutero Isaia chiama amico di Dio, suo eletto e suo pastore: il regno di Nabucodonosor non era stato longevo, verso il 539 a.C. Ciro II di Persia aveva conquistato Babilonia e, quindi, la Palestina era divenuta tributaria del suo grande impero. Il sovrano, persona dalla mente piuttosto aperta a differenza del re babilonese che aveva cercato dâeliminare lâidentità ebraica, essendo conscio che la tolleranza può favorire lâordine rispetta le culture dei popoli soggetti (2 Cr 36, 23): âNellâanno primo di Ciro, re di Persia, a compimento della parola del Signore predetta per bocca di Geremia, il Signore suscitò lo spirito di Ciro re di Persia, che fece proclamare per tutto il regno, a voce e per iscritto: Dice Ciro re di Persia: Il Signore, Dio dei cieli, mi ha consegnato tutti i regni della terra. Egli mi ha comandato di costruirgli un tempio in Gerusalemme, che è di Giuda. Chiunque di voi appartiene al suo popolo, il suo Dio sia con lui e parta!â Come si vede, lâautore immagina un Ciro semplice strumento di Dio.
nche altrove nella Bibbia dei sovrani pagani sono presentati come inviati di Jahvè, ma per punire popoli