Ernie White, l’operatore di turno quella notte, si affacciò nel cubicolo.
“Si è svegliata, la Bella Addormentata?” domandò.
Wayne sorrise e lo sforzo lo fece sussultare; erano induriti anche i muscoli facciali.
“Mi sa che intendevi riferirti alla signora qui a fianco.”
“Anche se fosse, è scortese notarlo.” E il viso di White, nero come una scultura d’ebano, svanì dalla soglia.
Wayne si drizzò lentamente gemendo per lo sforzo e rimase seduto. La testa quasi gli sfiorava il soffitto della cabina – che, comunque, non era stata concepita per restare seduti o in piedi. Sollevò allegramente la sua personale corona di spine, la Calotta Onirica, se la tolse dal capo e la poggiò sul lettuccio accanto a sé; poi si mosse verso l’uscita.
Dopo l’oscurità del cubicolo, le luci brillanti della stanza esterna gli fecero lacrimare gli occhi. Scivolando fuori dal suo bozzolo, Wayne ricacciò indietro gocce di pianto e guardò verso sinistra: lì, White aiutava Janet Meyers a uscire dal proprio alloggiamento. Janet sbatté le palpebre per la luce, proprio come Wayne; ma Wayne si era già ripreso e approfittò della momentanea cecità della donna per osservarla nei dettagli.
Da un punto di vista prettamente tecnico Janet Meyers non era una bellezza. Era un po’ troppo alta con l’ossatura un po’ troppo grossa. Aveva il viso tondo e, sulle guance, delle lentiggini appena percettibili. I capelli castani erano secchi e mai perfettamente in ordine; qualche ciocca riusciva sempre a volar via da qualche parte, di solito in mezzo alla fronte. Era ben proporzionata; qualsiasi uomo dotato di gusti normali le avrebbe donato una lunga, persistente occhiata anche se forse non si sarebbe voltato al suo passaggio per dargliene una seconda.
Non c’era nulla di speciale in lei che non si potesse trovare in centinaia di altre donne. E allora perché quando le sto intorno mi comporto come un orribile adolescente vergine? Si domandò Wayne, arrabbiato.
Lei si abituò alla luce e lo fissò. Wayne voltò rapidamente lo sguardo verso l’orologio sopra la porta della cabina di regia; poi si inquietò con se stesso per quel senso di colpa che aveva provato guardando la donna. Giochetti stupidi da ragazzini, pensò, dovrei esserne fuori da anni.
“Problemi?” domandò White. “Per un secondo mi è sembrato di veder saltare gli indicatori.”
Questo ricordò a Wayne quel casino orribile con il terrorista, nel corridoio.
“Ho avuto solo un problemino a coordinare un’immagine” rispose. “Stavamo inquadrando il personaggio in modi diversi, lui si è sfocato ed è saltato un po’ qui e un po’ lì prima che riuscissi a riprendere il controllo.”
“E’ stata colpa mia” disse Janet. “Era un personaggio tuo, eri tu che dovevi gestirtelo. Avrei dovuto lasciarti il controllo completo nel momento in cui è apparso ma non ci ho pensato. Scusami.”
“Non è stata colpa tua,” insistette Wayne, sentendosi molto protettivo. “Come ci si può aspettare la perfezione quando ci cambiano i copioni all’ultimo momento? Non abbiamo fatto neanche in tempo a leggerli, che possibilità avevamo di recitare…”
“E’ stato soltanto un piccolo sbalzo durato un secondo o due” continuò Janet. “Potremmo anche averlo fatto apposta per ottenere un intermezzo comico rilassante, nel caso qualche spettatore se ne fosse accorto. Se poi gli spettatori c’erano, oltretutto.”
“Ce n’erano ventiduemila, secondo il computer” affermò White.
Wayne lo guardò severo. Mort Schulberg non sarebbe stato contento di un indice così basso; ma, d’altra parte, raramente era contento di qualcosa, quello.
“E Janet ha lavorato proprio due giorni fa” continuò lui per difenderla. “Sarà esausta. E’ una di quelle cose che potrebbe succedere a chiunque.”
“Mica devi chiedermi scusa” sorrise l’operatore. “Io mi limito a giocare con le manopole, non lo sai?”
“Abbiamo dieci minuti” interruppe Janet, lanciando anche lei un’occhiata all’orologio. “Questo errore ormai è fatto, ma se vogliamo evitarne altri faremmo bene a coordinarci.”
Lei e Wayne entrarono nella stanza Sala Tattica, dove era stato preparato in tutta fretta un abbozzo della loro scena perché se la studiassero prima di ricominciare.
“Il corridoio è lungo venti metri,” esordì lei, quasi meccanicamente. “Ci sono uomini appostati qui, qui e qui. Un cancello a griglia metallica, tipo le serrande che si usano per chiudere i negozi la notte, proprio qui, manovrato da un pulsante qui. Due uomini dietro la serranda. Pensi di riuscire a disinnescare la bomba da solo?”
A quella domanda Wayne si sentì improvvisamente insicuro. Anche se era il Sognatore più giovane dello staff locale, aveva già fatto esperienza in altre sedi. Cercò di dissimulare i suoi sentimenti con una battuta leggera.
“Tanto devo farlo comunque, no? Ormai è tardi per cambiare il copione. E poi tu avrai il tuo bel da fare, con tutti quei terroristi.”
“Ah questo è sicuro. Voglio proprio chiedere a Bill come mai ogni volta ce ne sono di più. Mi sta facendo passare per un’accidente di Amazzone!”
“Forse, se gli sorridi con dolcezza, la prossima volta ti ingaggia per una storia romantica.”
“Oh Cielo spero di no!” Wayne si sorprese della veemenza della voce di lei. “Se c’è qualcosa che non voglio è un cumulo di immondizia sdolcinata per casalinghe frustrate. Piuttosto preferirei combattere con una mano sola contro orde di Mongoli.”
Poi guardò Wayne e gli notò una strana espressione in viso.
“E ora, che hai?” gli domandò.
Wayne distolse rapidamente lo sguardo.
“Nulla,” disse lui. Dalla reazione di lei aveva capito fin troppo chiaramente quali erano le sue opinioni del romanticismo al momento.
“E’ meglio decidere chi dovrà gestire cosa nella scena, così evitiamo ulteriore confusione. Non vorrei rovinare il finale.”
Rimasero alcuni minuti a esaminare la sceneggiatura punto per punto, discutendo chi sarebbe stato responsabile della visualizzazione di quali parti e di quali personaggi. Alla fine arrivò Ernie White che interruppe la discussione per farli tornare alle proprie cabine e poter iniziare in tempo. Mentre risalivano nei rispettivi cubicoli, inaspettatamente Janet rivolse a Wayne un sorriso e una rapida V di VITTORIA con le dita. Ciò in qualche modo sollevò l’uomo dalla depressione che lo aveva attanagliato; e si adagiò nella cabina.
Seduto sul lettuccio, afferrò la Calotta Onirica e se la tenne in grembo per un attimo, rigirandola e osservandola dappertutto. Non c’era molto da vedere: due archi di plastica incrociati, con il bordo stondato, che formavano l’intelaiatura di un casco craniale; fili che partivano dal retro e finivano sul pavimento. I diversi quadranti della Calotta erano occupati da una rete di fili quasi invisibile che si congiungevano in ventiquattro punti nodali corrispondenti ad altrettante aree cerebrali. Eppure quel semplice congegno aveva creato intere nuove industrie e aveva rivoluzionato il settore dello spettacolo ricreativo.
Le prime vere ricerche sui meccanismi del cervello erano iniziate decenni prima. L’elettroencefalogramma tracciava l’andamento delle onde cerebrali per poterle classificare e identificare: gli studiosi avevano scoperto che esistevano diverse aree del cervello responsabili di diverse funzioni corporee e avevano imparato che era possibile stimolare diverse porzioni della mente dall’esterno e ottenere modifiche di comportamento. L’esempio migliore era il classico esperimento in cui dei topi avevano elettrodi piantati nei cosiddetti centri del piacere del cervello: erano topi pronti ad attraversare una barriera che impartiva forti scosse elettriche pur di arrivare a premere una barra che stimolava i loro